E' morto Emmanuel Levinas, il grande filosofo, il mio filosofo.
Vi confesso che nei primi anni dell' America Latina (1959-1962/63) nel trapasso dall'Italia all'Argentina e al chaco argentino (la macchia) ho provato nella mia carne, quello che i francesi chiamano "le déracinement", lo sradicamento, strappare una pianta dalle sue radici. Non risentivo nostalgia delle nostre chiese o dei nostri musei, ma sentivo la sofferenza di perdere a poco a poco quegli strati di conoscenza che avevo accumulato negli anni con la mia tenace fedeltà allo studio. Immaginate uno che ha fra le braccia un mucchio di fogli che ha scritto di sua mano in lunghi mesi e anni, e un vento furioso glieli porta via uno a uno e il povero scrittore li rincorre inutilmente ... se ne vanno. E in quegli anni mi aiutò a rimanere in piedi la preghiera e Emmanuel Levinas che incontravo con la mediazione del mio amico Enrique Dussel, in seguito attraverso la lettura diretta dei suoi testi.
Forse non lo avrei capito così a fondo se non lo avessi letto di ritorno da una visita alla favela e dopo aver accolto tutta l'amarezza di un giovane disoccupato o di una donna che avrebbe bisogno solo di un po' di latte per i suoi bambini. Quante volte vengono alla mia casa donne che rassomigliano a quella del racconto di Elia: "Ti assicuro che non ho più pane! Ho soltanto un pugno di farina e un po' d'olio... mangeremo e poi non ci resta che morire" (I Re, 17,12).
Il Vangelo mi aveva insegnato che se volevo incontrare il Cristo che avevo promesso di seguire, non c'era altro scampo che andarlo a trovare nei poveri, ma restava in me come una mutilazione che in fondo cerava una disarmonia, una incoerenza, e Levinas mi aiutava a ricompormi in unità: l'unità della persona che ero stato e quella che volevo essere ora fra i poveri.
Se dovessi definire Emmanuel Levinas in poche parole, direi che è il filosofo che ha portato alla dignità della ragione umana, del più alto esercizio della ragione umana, la responsabilità verso il fratello oppresso.
Spiegarmi di più mi porterebbe molto lontano. Ci sono delle frasi di Lévinas che ho trascritto nel mio "breviario dell'anima" (cioè lo scritto che non si fa vedere): "Il Bene mi ama prima che io lo ami; gli obbedisco prima di ricevere il suo ordine"; "Il volto dell'altro è ciò che rompe (o distrugge) la violenza intesa, non come pulsione a uccidere, ma come indifferenza... come noncuranza, come egoismo". Non si uccide solo con le armi, ma con questo rifiuto della responsabilità che per Lévinas è parte essenziale dell'essere umano.
"Se la filosofia vuol comprendere l'umanità - l'umanesimo dell'uomo - deve senza vergogna e senza enfasi, mettersi al servizio di questo mistero, l'Altro, di questo miracolo, l'amore, e attendersi solo la generosità dello Stesso verso l'Altro e l'ingratitudine dell' Altro verso lo Stesso" ha scritto. E ancora: "La santità non consiste nelle privazioni, ma nella certezza che bisogna lasciare all'altro in tutto il primo posto a cominciare dal dare il passo quando si deve passare da una porta, fino a, se possibile - la santità ce lo richiede - di morire per l'altro". Sottolineo le parole "senza vergogna" perché trovo in Repubblica del 24/12/95 un discorso di Scalfari fortemente "etico"; parla di un "prorompere in tutti i campi di un egoismo dimentico dell' altro, narcisistico, monologante... Le cause di questa crisi dell'umanità vanno ricercate nell'invidia per la condizione altrui, nell'avarizia che non vuole mettere in comune nulla del proprio, nell'esibizione della forza come mezzo risolutivo dei problemi suscitati dalla convivenza" .
Scalfari si scusa di dover fare questo sermone.
E anche Lévinas si scusa spesso; non vuole essere preso per cristiano.
Li capisco perfettamente, perché nell'ambiente cattolico è sempre esistito sotto forma di zelo (e non lo è!) la mania di ricuperare e assimilare le persone: Ma tu sei già cattolico, ti manca solo l'andare a messa. E non è vero; è bene che certe scoperte restino nel campo laico, che non siano fatte nostre perché il nostro passato non offre nessuna garanzia: il discorso della montagna è stato interpretato come uno stato che raggiungono solo coloro che hanno il privilegio di dedicarsi alla contemplazione.
Il discorso escatologico del cap.25 del Vangelo di Matteo è interpretato come un invito all'elemosina; a nessun filosofo cattolico è venuto in mente il vigoroso discorso dell' Altro, e di dargli una dignità filosofica come ha fatto Lévinas. E la filosofia cattolica si è trastullata per secoli contemplando un ente astratto "ingrave" come dice il poeta Machado, cioè esente dalla legge di gravità, senza mai assumere tutta la malizia della storia e farsene responsabile. Pare che siamo entrati nell'epoca in cui i filosofi non si vergogneranno di parlare di etica, anche se le parole appariranno "religiose".
E Lévinas ha aperto il cammino.
Ecco perché sono diventato capace di ammirazione di certi segni che vedo apparire nella persona, più che nella cappella Sistina o in una suonata di Beethoven.
Mi accorgo che delle apparizioni grandiose del genio, posso fare a meno. Ma di altre che appaiono nascoste nella quotidianità non posso fare a meno, perché fanno parte del mio ritmo spirituale. Come quando vado nella selva degli indios e li vedo chini sui banchi fatti di stecchi uniti insieme a disegnare, a scrivere, a leggere, mentre i "grandi" tramano di scacciarli di lì come avvenne nei tempi raccontati nel film Mission. Come quando Joao si scoraggia e decide di abbandonare una terra bruciata dal sole che non dà nulla, e la sua donna Lorenì, superando le sue abitudini domestiche, lascia la casa, si mette al suo fianco e "lavoriamo insieme!". Da quel giorno la terra ha promesso che fiorirà.
Vi assicuro che non c'è spettacolo più affascinante di queste apparizioni della vera essenza dell'uomo, quasi sempre soffocata da immagini che la società consumista e violenta impone all'uomo.
Rivedo i vostri volti e sorrido, desiderando che i vostri occhi siano capaci di vedere oltre la realtà che vi circonda.
vostro fratello Arturo
in Lotta come Amore: LcA marzo 1996, Marzo 1996
Luigi Sonnenfeld
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