Avremmo voluto essere più solleciti nel preparare e spedire questo primo numero del 1996, ma spesso i giorni rotolano l'uno dopo l'altro in rapida successione... e noi rotoliam con essi!
Non stiamo cercando scuse per la semplice ragione che non crediamo di dovere delle scuse a nessuno. E' solo constatazione di quanto la vita si impossessa di noi, fino a trascinarci letteralmente via, oltre ogni impegno di calendario.
Succede; se non a tutti, almeno a tanti. E' umano, è comprensibile..., ma non dovevamo evitare di scusarci?
Vogliamo allora lamentarci per le tante, troppe cose da fare?
No, non è giusto.
Sarebbe come dire che sappiamo bene quali sono le cose importanti da fare: solo, un nugolo di altre meno importanti, ce lo impedirebbe!
Non funziona, vero?
Tante volte non sappiamo davvero quali siano le cose veramente più (!) importanti.
Più importanti per chi? e per che?
E così ci lasciamo inghiottire dal tempo che passa.
La vita ci viene incontro e ci porta con sé. Non è né buona né cattiva la vita: è energia, é messaggio potente che cerca di sollevarci dalle nicchie della nostra supposta onnipotenza. Per consegnarci - se lo consentiamo - alle strade che portano verso quello che siamo realmente. Siamo noi ad essere buoni o cattivi viaggiatori, e non per le intenzioni che portiamo nel cuore e nell'anima, ma per l'attenzione e la cura che poniamo nel seguire i sottili fili di arianna che svolgono e compiono i cammini del nostro vivere. Fili diversi che si intrecciano e si dipartono continuamente in un andirivieni che può essere giudicato il sintomo di una solitudine esistenziale insuperabile. Ma può essere anche il punto di partenza della ricerca di cammini comuni, o meglio comunicabili nella loro direzione. Un senso della vita umana che non è il prodotto della nostra decisionalità, ma il frutto dello spirito di accoglienza.
La ricerca di questo senso ci riporta agli inizi della vita umana, al mito biblico dell'albero del bene e del male. Alla resistenza che dobbiamo opporre a ciò che determina l'eterna tentazione: mangiare i frutti proibiti per essere come dio. E cioè conoscere il bene e il male per poter giocare l'onnipotenza di ogni possibile cammino di vita, nel bene appunto, come nel male, senza affondare nell'incertezza, nel dubbio e quindi nella ricerca, nella fiducia, nella confidenza, nella necessità di essere almeno sfiorati dalla mano di qualcuno come noi, quando si nasce come quando si muore. Senza, cioè, essere umani.
La ricerca di senso ci riporta ai miti delle origini anche per quanto riguarda il nodo delle umane differenze. Entrati da sempre nell'imbuto della contrapposizione, che utilizza la differenza come discarica di eterni sensi di colpa, non sappiamo come uscirne salvo che nelle rigide gerarchie dettate da lotte di potere e nella susseguente determinazione dei ruoli dei più "forti" e dei destini subalterni dei più "deboli". Uomini e donne, bianchi e neri, ricchi e poveri, cavalli di razza e umili asinelli da soma... Condotti per mano dalla dura esperienza del limite e dal bisogno sempre risorgente di completezza, possiamo scoprire un itinerario diverso che non ci spinge come gente impazzita a calpestarci vicendevolmente per raggiungere una improbabile uscita. Una direzione opposta che non costringe, ma dilata l'unicità di ciascuno e, nello stesso tempo, la diluisce e la ricrea nell'incontro e nella interazione.
Un viaggio che non si svolge attraverso le autostrade di facili sentimentalismi di amori universali e intenzionali pacificazioni indolori, i cui pedaggi sono pagati in "sudore e sangue" sempre dai soliti ignoti.
Vogliamo provare ad uscire dai binari della supposta normalità che ci immobilizza al centro dell' attenzione di tutti coloro che non sono come noi, per guardarci un po' intorno? O forse sarebbe più giusto dire: per guardarci dentro? No, così siamo ricacciati negli spazi interessanti, ma ugualmente circoscritti dell'introspezione. Vogliamo affrontare l'avventura? Allora, piuttosto, guardiamo dentro, immergiamoci nella sbriciolatura del quotidiano...
Non si vede niente! Niente di più o di meno di quello che già sappiamo o per averlo sentito dire o per averlo sperimentato: la vita è una mescolanza di gioie e di dolori, un mare a volte sonnacchioso a volte in preda a burrasche terribili. E' già miracolo se riusciamo a tenere la barca pari e galleggiante, a mantenere vivo il desiderio della quiete di un porto.
La rotta non è nelle nostre mani: è affidata al mistero che sottostà all'infuriare minaccioso dei venti e alloro improvviso calmarsi.
Nel frattempo ci industriamo a cercare un minimo di riparo nella tempesta; a rimettere in sesto la barca e a renderla più vivibile nei momenti di bonaccia. A volte riusciamo anche a far festa...!
Poi ci guardiamo indietro e lo scorgere la breve scia della nostra barca che subito scompare ci mette dentro una gran voglia di piangere il nostro destino. Le lacrime gonfiano gli occhi e chiudono la gola.
Nebbia fittissima. E allora un desiderio impazzito d'evasione; oppure il rinchiudersi in stanze ben riscaldate, illuminate e sbarrate dal di dentro perché la nebbia non le contamini. Quante volte il bisogno religioso nasce dalla volontà di difendersi dalla vita e non è tanto l'amico che ci introduce e ci accompagna, quanto il catenaccio che usiamo per difenderci dalle nostre angosce e paure?
Guardiamo dentro la vita con gli occhi del cuore! Sono come i fari fendinebbia: devono essere più vicino possibile al suolo; più appiattiti possibile alla realtà quotidiana, così com' è. Amata e raccolta per quella che. è. Non cercano come i fari normali di abbagliare la nebbia di prepotenza, ma la scalzano dal basso e le tolgono il potere di nascondere la strada, la traccia su camminare. Cercano con umile, ma decisa pazienza di rintracciare il senso, la direzione, su questa terra e verso il cielo. E in questo frugare nella nebbia consentono alla strada di rivelarsi, di apparire. Non vogliono "vedere". Vogliono che la strada si mostri: seguirla. Non vogliono determinare il senso della vita, ma che la vita scopra noi e a noi si doni nella pienezza del suo significato.
Gli occhi del cuore sono quelli che spingono a raccontare di noi agli altri e a noi gli altri in un intreccio di serene e limpide complicità, laddove si scopre che sotto la nebbia della superficie delle cose si svolge una trama di fili e di colori che nella loro diversità forme di impensabile armonia.
Gli occhi del cuore consentono alla vita di svelarsi tale e non come l'inizio inevitabile della morte. Il della nostra esistenza viene dipanato dalla mano della vita-sempre-nascente la cui forza è nell'affidarsi in tutta la sua fragilità all'incontro e all'accoglienza.
Anche solo quella di un pugnello di persone che non si abbandona alle parole, ma lascia che immagini e sogni si incontrino e cerchino la traccia di un cammino vitale sotto la nebbiosa e impenetrabile coltre che ci consegna all'indicibile non senso del morire.
La Redazione
in Lotta come Amore: LcA marzo 1996, Marzo 1996
Luigi Sonnenfeld
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