La posta di fratel Arturo

Cari amici dell' emisfero nord del mondo, l'autunno segna il mio distacco fisico da voi, e la partenza per un altro spazio fisico di questa piccola terra. La partenza non marca rotture, ma solo piccoli spostamenti, da una stanza che guarda verso nord a quella che guarda al sud. Dovunque mi trovi, cerco di vivere seriamente il senso della mia vita, quello di aiutare a sperare, perché senza speranza nessuno può vivere. Può sopravvivere biologicamente, ma questo non è vivere da esseri umani. E così ho sempre cercato e cerco di essere attento ai segni di speranza che appaiono nel divenire storico, come ci ordina il Vangelo.
Sulle autostrade che ho percorso spesso, mi ha incuriosito l'apparizione improvvisa di luci in pieno giorno che mi hanno spiegato essere segnalazioni di curve pericolose e mi sono apparse come simboli di questi sprazzi di speranza. Ho visto uno di questi flash nella nostalgia di "utopia" presente esplicitamente o implicitamente in scrittori "laici", e li ho esaminati in controluce a confronto con le nostre posizioni cattoliche così sicure, dove non trovo spazio per la speranza che ha come oggetto "cose che non sono qui e non sono ora". Negli spazi di meditazione che cerco di difendere dalle aggressioni selvagge all'''otium'' contemplativo che rappresenta l'uso più intelligente del tempo, ho riflettuto a lungo sul senso dell'utopia. So che l'utopia è il grande segreto dello Spirito e che Egli lo rivela a chi tiene gli occhi alzati e diretti su di lei, rinunziando a conoscerla, come non si può guardare a lungo il sole. Chi vuole chiarezza su questa contraddizione, può aprire il Vangelo e incontrarsi col Maestro che mantiene l'attenzione dei discepoli sull'utopia del regno, e non soddisfa mai la loro curiosità di sapere quando e come sarà questo regno.
Forse i laici stimolati dalla necessità di ritrovare l'utopia, prima che gli sviluppi della tecnica computerizzata non abbiano tolto all'uomo l'ultimo spazio dove possa immaginare, sognare, sperare, troveranno il linguaggio della speranza. Forse la ricerca li guiderà a ripensare la fede cristiana da cui si sono allontanati perché "non interessante per la vita", per accorgersi delle suggestioni utili per ragionare sull'utopia, magari guardandola con "ironica distanza", come hanno scritto. E resteranno stupiti nel rendersi conto che i credenti hanno lasciato perdere l'occasione di offrire all'umanità quello di cui aveva veramente bisogno. Di non essersi accorti che il linguaggio con cui avrebbero potuto parlare di Dio all'uomo disperato per il naufragio delle sue speranze era quello, e solo quello. Di avere emarginato con superbia colonialista, quelli che in un linguaggio giudicato rozzo, ritrovavano nella Bibbia il filo dell'utopia e cercavano di riprenderlo in una teologia che hanno chiamato della liberazione. Vocabolo strano e pericoloso solo perché faceva rima con rivoluzione.
A tutto questo pensavo la sera del 9 settembre davanti allo spettacolo tutt'altro che autunnale, della folla giovanile che il Papa aveva convocato da tutta l'Europa per invocare insieme a lui la pace. Avverrà finalmente - chiedevo all' Amico con il quale ho l'abitudine di dialogare - che le comunità cristiane accolgano l'invocazione, non come un "fatto", ma come una "profezia"? E' noto che noi cattolici portiamo avanti quell'idealismo tipico della nostra cultura che ci mantiene nell'illusione che basti lanciare un'idea perché questa diventi una realtà storica; e il fasto solenne in cui la incorniciamo ci manda a casa soddisfatti. Forse nel nostro subconscio religioso è radicata la sicurezza che l'assistenza divina promessa alla Chiesa ci dispensi dalla faticosa, lunga, dura ricerca umana. La nostra maniera di vivere la fede ci ha abituati a un avanzare senza fermate, senza ripensamenti critici, e così questa profezia della pace può restare nel cielo di Loreto, come in quello di Compostella e altri che sono l'unico cielo di Dio. E' vero che la pace viene da Lui; ma agli "uomini di buona volontà", cioè a quelli che sanno incarnare nella storia che avviene "come se Dio non esistesse", secondo l'espressione di Bonhoeffer.
Avendo vissuto una stagione a Spello, osservatorio privilegiato della gioventù, ho ripensato al ritorno dei giovani italiani alle loro comunità parrocchiali, portando nel cuore e negli occhi il fascino della parola "pace", che dovrebbe diventare nella quotidianità, responsabilità della pace. Mi sono fermato a immaginare il ritorno di questi giovani animati dal tentativo di inserirsi in una comunità da cui li ha esclusi un clericalismo irrispettoso verso la loro originalità e la loro ricerca di come inserirsi nel loro tempo che, fra poco, non sarà più il tempo degli adulti. Qualcuno, ridestato al bisogno di Assoluto e di una fede che risponda ai suoi bisogni esistenziali, forse trova una fede sbriciolata in devozionismi capaci di consolare l'angoscia di cristiani preoccupati dell' ora estrema, ma assolutamente lontana dall'offrire argomento e luce per l'entusiasmo di vivere disprezzando le offerte di qualunque tipo di droga. Ho pensato a chi può tornare a una comunità parrocchiale il cui responsabile è invaso dal delirio edilizio dove investe le sue frustrazioni affettive. Qualcuno può trovare il pastore impegnato con un gruppo di potere che cercherà di legarlo al vecchio terrore paralizzante del "comunismo che viene" e "bisogna salvare la chiesa e il papa"; il regno di Dio può attendere. Oppure la sua sete di pace può essere diretta a movimenti di spiritualità che hanno scoperto il segreto di entrare nel sancta sanctorum con l'anima, lasciando fuori il corpo a scompigliare la convivenza pacifica con gli altri e con le cose...
I miei amici-colleghi mi rinfacceranno di essere un critico impenitente, mi diranno che le parrocchie di oggi sono un'altra cosa che io ignoro. Ma sento la responsabilità di insistere che è suonata l'ora di essere critici; ognuno deve assumersi la propria responsabilità. E bisogna smetterla di lamentarsi che i sinodi non fanno avanzare la Chiesa, che assemblee come quella di Palermo ingannano il laicato invitandolo a discutere su decisioni già prese, e cose simili. Proprio per obbedire al Papa, bisogna cercare una base comune fra credenti e non credenti, fra cristiani di differenti denominazioni. E questa non può essere che l'utopia del regno pensata da diversi punti convergenti nei valori di giustizia e di pace. Bisogna raggiungere l'unità nell'impegno comune di ripudiare ad ogni costo la fabbricazione e la vendita di armi, di combattere l'idolatria del mercato, di resistere alle tentazioni del consumismo. Dobbiamo tener presente che un cristiano può testimoniare la sua fede solo se vive la fraternità ad ogni costo superando pregiudizi culturali, opponendosi a opinioni familiari, seguendo il Maestro che non ha chiesto chi era questo o quella che gli offriva l'occasione di vivere la convivialità. E che non ha temuto di consigliare di rompere il vincolo familiare quando questo sia un ostacolo all'impegno di fare del mondo scandaloso la famiglia del Padre. Continuiamo a pensare all'utopia; vi accorgerete che questo è il cammino per riempirei d'entusiasmo e di gioia di vivere.
Vi abbraccio, rinnovando il calore dei nostri incontri.


fratel Arturo


in Lotta come Amore: LcA novembre 1995, Novembre 1995

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