"La mia pace" di fratel Arturo

Il titolo che io stesso ho dato potrebbe far pensare alla pace di Arturo. Invece queste sono le parole del Vangelo: "la mia pace", cioè la pace che Cristo offre come sintesi della sua missione nel mondo.
Stasera vorrei parlarvi della pace perché, in questi ultimi tempi della mia vita, guerre orribili come quella del Rwanda e della vicina Yugoslavia hanno scosso tutti e mi hanno fatto pensare seriamente che la nostra vita non è veramente una vita umana se non contribuiamo in qualche modo alla pace.
Vorrei darvi tre linee fondamentali che appaiono nella cultura attuale del mondo in cui viviamo e che possono costituire delle linee di azione per la pace. Una è di indole non solo religiosa, ma strettamente cristiana. Le altre due sono piuttosto motivazioni o linee di ricerca scientifica. La prima linea è rappresentata da un fenomeno che è avvenuto nel nostro tempo e che ancora non ha avuto gli sviluppi promessi. E' la scoperta del momento centrale della missione di Gesù.
Nella tradizione cristiana (o per lo meno per molti secoli) questa si è concentrata su Gesù come essere divino che è venuto a compiere nel mondo una missione extramondana, cioè non di questa terra. E' venuto, in modo particolare, per aprire le vie del cielo e persuadere il Padre al perdono. Elementi questi che si raccolgono nella sua persona di salvatore, ma che in un certo senso vanno al di là della nostra vita storica e interessano il nostro futuro oltre il tempo.
Invece il Concilio Vaticano II, portando a compimento una lunga ricerca teologica, ha riscoperto il filo conduttore della Bibbia. E ha riscoperto Gesù come trasformatore della storia. Dice il Concilio Vaticano che il centro della predicazione di Gesù non è l'anima; è il Regno di Dio. E questo Regno di Dio è un regno che si deve, anche se non completamente, realizzare già nella storia. Ed è praticamente una famiglia umana che è, nello stesso tempo, famiglia di Dio. A partire dal conflitto, a partire dal non intendersi, a partire da un mondo scandaloso, bisogna cercare di mettere dentro questo mondo delle dinamiche di amore. L'intento di Gesù è soprattutto la fraternità umana, l'intesa, il dialogo, l'amicizia, il superamento e la distruzione delle guerre e della violenza. E' quindi vero che questo eone della storia deve terminare alla fine del mondo in quella che chiamiamo la parusia, ma non per questo la missione di Gesù cessa di essere una missione terrena, storica.
Noi quando leggevamo l'Antico Testamento, restavamo scandalizzati al vedere il nostro mondo non solo come un mondo di amicizie, di incontri, di comunione, ma anche un mondo di violenze, di incomprensioni: l'uomo com'è, l'uomo che conosciamo, l'uomo che siamo noi.
E sappiamo che la Bibbia è un libro santo proprio perché dentro questa storia così confusa e così scandalosa appare l'azione delicata e profonda di Dio che conduce l'uomo verso l'amore, la convivenza, il convivio pacifico, il convivio amoroso e, per questo, lo rende felice. La missione di Gesù non poteva essere altra cosa. E' stata la nostra cultura dualista, spiritualista e idealista che ci viene da quella greca e, secondo studiosi attuali, addirittura dall'oriente, a spiritualizzare così tanto Cristo. Questa nostra cultura lo ha messo così tanto fuori dalla nostra esperienza umana, dalla nostra storia, dalla nostra sensibilità; ce lo ha allontanato tanto da far diventare il Cristo un essere molto importante per la nostra vita eterna, ma di nessuna importanza per la vita che ora viviamo.
Invece tutto un cammino teologico, culminato nel Concilio Vaticano II, ha riscoperto il Regno di Dio come un impegno su questa terra di Cristo che è morto proprio per poterlo realizzare. E' morto, Gesù, perché si è opposto fortemente, coerentemente, a questo mondo che è la negazione della fraternità, dell' amicizia, della pace, della concordia e della convivenza pacifica. Questo primo elemento importante è entrato nella nostra cultura. E' irreversibile, anche se viene negato; e forse non tanto negato volontariamente quanto attraverso una nostra religiosità tutta interiore che privilegia la figura di Gesù come salvatore dell'anima, che manda nel cielo le anime del purgatorio, e risolve i nostri interessi spirituali ed eterni. E' quindi una resistenza di tipo culturale. Ed è molto difficile accettare questo Gesù umano, incarnato nella storia, che assume a tutti gli effetti la nostra storia. A volte viene addirittura considerata un'eresia.
Il secondo elemento è parallelo al primo. Diceva Hegel che in fondo il fronte umano avanza con una certa compattezza e con un certo equilibrio.
E di fatto anche la filosofia, i filosofi del nostro tempo che hanno seguito la via di Kant, sono arrivati ad un vicolo chiuso. Si sono accorti che tutta la nostra speculazione non ha avuto nessuna influenza sull'andamento della storia. Anzi, la storia ha decisamente camminato verso la guerra, verso la discordia, verso la violenza, piuttosto che verso la pace.
Sapete che colui che forse può essere definito il più grande filosofo del nostro tempo, ha finito la sua ultima pagina scrivendo: "Solo Dio ci può salvare!"? E questo non è un atto di fede, come qualcuno ha pensato, ma piuttosto un atto di scetticismo e di disperazione: non c'è davvero salvezza! La nostra ragione è incapace di salvezza. E non parla - questo filosofo - della salvezza eterna; parla della salvezza del mondo minacciato dall'apocalisse. Solo Dio ci può salvare: un po' come dichiarare di non poter far altro che lavarsene le mani. Noi non possiamo farlo; assolutamente.
Il discorso giunto a questo punto morto viene ripreso da un altro filosofo, ebreo e alimentato dalla Bibbia; in particolare dai profeti. Egli dice che il pensiero umano (e parla del pensiero filosofico non tanto di quello scientifico a cui arriveremo tra poco) può riprendere il suo cammino solamente a una condizione: che ci appaia il volto dell'uomo oppresso, dell' uomo marcato dalla sofferenza e dall'ingiustizia. Questa visione ci può scuotere tanto da far cambiare profondamente la nostra vita. E' di lì, dice Levinas, da questo choc terribile, che può ricominciare il pensiero umano non dimenticando mai l'immagine di questo mondo. E' il volto dell'uomo il punto da cui comincia la filosofia.
E voi capite che questo è estremamente rivoluzionario, estremamente nuovo. Perché i filosofi non hanno mai, mai!, messo l'uomo concreto, reale, con i piedi in terra, e gli avvenimenti provocati dall'ingiustizia e dalla disuguaglianza umana come principio del pensare filosofico. E' invece da lì che comincia il pensiero filosofico. Ci voleva questo ebreo per insegnarci veramente quello che abbiamo dimenticato del cristianesimo. Noi abbiamo costruito e volumi e volumi di teologia speculativa domandandoci per anni interi come è fatto il corpo degli angeli, e non abbiamo mai pensato che Gesù ci ha detto: di lì dovete cominciare, perché ricordatevi che nel punto finale della vostra vita voi non sarete giudicati sulla dottrina, non sarete giudicati sul numero dei cori angelici, ma sarete giudicati se: "avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete rivestito". Dal volto dell'uomo: di lì dovete cominciare a ragionare, di lì dovete cominciare a pensare.
E qualcuno si può scandalizzare, ma io domando: è più nobile, è più reale, è più autentica l'idea platonica o l'uomo concreto, l'uomo che sta accanto a te, l'uomo che soffre? E solamente partendo di lì possiamo pensare ad una rivoluzione di tutte le teorie. E non solamente quelle spirituali, ma anche quelle economiche, le teorie politiche, tutto il nostro pensiero reale che sta aderente a questa scoperta. Allora sì che il nostro può essere realmente un pensiero di pace.
L'altra linea è tipicamente scientifica. Sono un incompetente e, leggendo un libro di fisica mi sono sentito insieme perso e affascinato: perso perché molti termini mi sfuggono e non saprei tradurli in parole più comprensibili. Affascinato perché l'autore di quel libro si sente a un certo punto coinvolto nel mondo della natura, come in una specie di grande danza. C'è una tale rivoluzione in questo modo di pensare rispetto ai sommi principi, alle idee eterne di Newton, di Galileo. Qui si parte dall'esperienza di sentirsi dentro questa danza così poco razionale, è vero, ma così immaginativa e creativa. Essa ha una spinta, una finalità, una meta, e non è assolutamente caotica. E' danza, non caos, non disordine.
Ho sentito una corrispondenza profonda tra queste tre linee fondamentali. Non si parte più, anche se lo volessimo, dalle idee; non si parte dai princìpi, non si parte dagli assiomi, ma si parte dalla realtà, si parte dall'uomo, dall'uomo concreto. E quindi - finalmente! - abbiamo messo i piedi in terra. Ed è un fatto importante. Abbiamo assunto la storia. E da questa visione della fisica nasce una idea che mi ha affascinato tanto ed è l'appartenenza.
Noi apparteniamo, apparteniamo anche se non lo vogliamo, apparteniamo a questo mondo, siamo parte di questo mondo. Quindi bisogna assolutamente superare l'idea del dominio - la natura è mia, la cosa è mia; io posso fare uno stabilimento e contaminare l'acqua che voglio, l'aria che voglio; calpestare tutto perché è mia, appartiene a me. Invece è la condizione contraria: io sono parte, sono dentro. E di qui nasce l'idea di responsabilità: noi non possiamo mai isolarci, sentirci soli, pensare a noi come noi, perché allora non siamo più uomini. Siamo perduti. Perdiamo la nostra identità, necessariamente, fatalmente. E molti hanno perduto la loro identità e la perdono continuamente anche perché tutto quello che li circonda - il mondo del consumismo, il mondo in cui viviamo, - praticamente è la distruzione della nostra identità.
La nostra identità come forza creativa; come identità autentica in poche parole. Siamo in un mondo nuovo! Ancora non si sa dove andrà; evidentemente questi esploratori, questi che vanno avanti; questi teologi o questi fisici, questi scienziati o questi politici sono quelli che esplorano, che vedono profeticamente dove va il mondo. E noi stiamo cercando, attraverso queste loro intuizioni, qual è il nostro cammino della pace.
Oggi viviamo in una pluralità religiosa e non più in un regime di cristianità. Ciascuno ha in mano la propria vita religiosa e con essa due possibilità: essere fautori di guerra o essere costruttori di pace.
Perché la religione è uno dei primi strumenti di guerra. In nome della religione abbiamo ucciso, perseguitato, diviso, separato, creato società di discordia. Ricordatevi che in tutto quello che è contro la pace, anche se fatto in nome di Dio, Dio non c'è. Perché, dove c'è Dio, c'è concordia e c'è pace. E per poter convivere con le altre religioni e per far sì che la religione sia veramente strumento di pace non c'è altro cammino, se ci pensate bene, che incontrarsi nell'uomo, incontrarsi nell'amore per l'uomo, incontrarsi nel compito di fare un mondo meno scandaloso. Non ci incontreremo mai se ci confrontiamo sulle idee, sui princìpi, sulla dottrina; mai! Non potete mai sperare che il papa sia il solo pastore di tutta l'umanità. Impossibile. Si può pensare che Cristo sì in quanto lui è il centro della pace, in quanto si è identificato con l'uomo povero, con l'uomo affamato, con l'uomo che soffre: lui sì che può essere principio della pace; non le idee, non i dogmi. Con questo non voglio dire, assolutamente, di negare i dogmi, ma voglio dire che l'incontro non si fa lì. Perché si fa unicamente partendo dall'uomo, partendo dai suoi bisogni e partendo dalla nostra responsabilità personale di contribuire a fare un mondo meno scandaloso e più giusto, più umano. Se la nostra religione ci aiuta e ci impegna a questo, allora sì che la nostra religione diventa elemento e strumento di pace. Se invece partiamo da una visione intellettualistica, dottrinaria della fede e siamo attaccati a questa, diventiamo necessariamente strumento di discordia. E non c'è niente contro la pace come una visione religiosa che si oppone all'altra e che dice: tu non sei come me, e io sono superiore a te; tu non hai la verità che ho io perché io sono tutta la verità. Capite? Tutto questo è una provocazione profonda a pensare. Non pensare partendo dai principi, ma da queste necessità. E costruire un mondo pensando agli ultimi, pensando ai piccoli, pensando agli esclusi, ai derelitti. Ed è proprio questo che i filosofi hanno visto; è la cosa di cui si sono accorti. Ancora noi non ce ne siamo accorti: il mondo dell'industria, il mondo della produzione non se n'è accorto. E pensa di vedere, ma non vede, non vede assolutamente. E chi invece va a vedere gli esploratori, quelli che vanno avanti, quelli che vedono già quello che sarà domani, e si prepara a questa novità. Cominciamo a dire che non siamo più agenti religiosi conquistatori, ma che siamo agenti di pace.
E che l'uomo non è l'uomo se non collabora alla pace dell'altro. Perché la nostra identità è proprio relazionarci: siamo esseri di relazione. Relazione con la natura, relazioni con gli altri, relazioni con le cose. E, nella misura in cui realizziamo pacificamente che le relazioni ci danno gioia e danno gioia agli altri, noi scopriamo negli altri la nostra identità.
Bisogna riscoprire l'uomo e riscoprirlo dentro di noi. Questo non lo si fa mai individualmente, mai in forma isolata: lo scopriamo nella relazione, nella relazione con gli altri. Quanto più siamo uniti agli altri e quanto più sentiamo la responsabilità degli altri e la responsabilità della natura, la responsabilità del mondo, tanto più ci sentiamo uomini, scopriamo la nostra identità.
Vorrei finire questa conversazione - perché io la sento come una conversazione con voi - con una poesia. Una poesia brasiliana che è stata scritta da un mio amico che si chiama Lino. Vi dico in poche parole la sua biografia. E' un uomo che da giovane, si scopre lebbroso. E allora va per le strade senza trovare rifugio, senza sapere che fare e finalmente trova una suora italiana salesiana che costruisce un lebbrosario. Se voi andrete a Campo Grande nel Mato Grosso lo troverete. Piante, fiori, bellezze. E quest'uomo è accolto nel lebbrosario e passa tutte le tappe della lebbra. Gli cadono le braccia, gli cadono le gambe; è fatto a pezzi, a poco a poco. In questi giorni mi è arrivata la notizia che quest'amico è morto.
Verso i 50 anni. Ha lasciato molti scritti, tra cui questa suora amica mia mi manda questo che mi ha fatto pensare tanto:
"Io non sono questa sedia di dolore; non fa parte di me. E non sono questo volto gonfio, questo ventre moscio: quello non sono io. Queste mani schiacciate dal dolore: io sono nascosto in queste rovine.
Sono dietro questi occhi tristi che la sofferenza ha appannato. Nonostante che sia così sterminato e irriconoscibile, sono felice perché non sono stato sconfitto. Perché amo la vita con gioia e fiducia in Dio. Sono una barca sfasciata da tempeste della vita, ma non ho mai perduto la rotta e sono ancora nella rotta della speranza.
Felice,felice perché la stella dell'amore ha brillato sempre davanti a me".
Noi che siamo efficienti, intelligenti, forti, capaci, che possiamo ricevere informazioni, che abbiamo tante amicizie, che abbiamo tanti tesori, tante possibilità, qualche volta ci sentiamo depressi, scoraggiati, vinti da questo mondo, da questa situazione politica, dalle grandi forze del male, dalle immense forze del male. Ma forse contiamo sulle cose esterne, sui bisogni. Non contiamo su questa prodigiosa forza che è dentro di noi. Non contiamo su questa nostra grandezza che è nascosta; e qualche volta abbiamo sepolto dietro apparenze di grandezza, dietro costruzioni false, sotto un barocchismo che noi stessi abbiamo costruito, che ci hanno aiutato a costruire gli altri. Non abbiamo scoperto questo io profondo, questo che dice...: "Io sono dietro, io sono dietro questi occhi tristi che la sofferenza ha appannato. Sono dietro queste mani schiacciate dal dolore". Vedete, che bellezza qui spunta: è il suo corpo, il suo corpo che è la negazione del suo io. E' il suo corpo che mi fa sentire l'impotenza. l'impossibilità, vorrei dire il nulla dell'uomo. Eppure dentro questo corpo si è allo zenith! La sua grandezza è la grandezza dell'uomo: l'uomo che spera, l'uomo che assume la sua responsabilità, che assume l'aspetto anche doloroso del suo essere uomo. E' quello che dobbiamo fare, quello che dobbiamo costruire. Perché allora sì che possiamo veramente essere strumento di pace. Ricordatevi che la pace - come dire? - nasce proprio dal nulla. Gesù ha detto una parola straordinaria: che sono i poveri, e cioè quelli che non contano sulle cose esterne, sulle forze che ci recano il male, il denaro, il prestigio, le forze esterne a noi. I costruttori di pace sono veramente i poveri, cioè questi poveri che non hanno che se stesso. E qualche volta che ritrovano se stesso anche quando sono così distrutti; come Lino, distrutti dalla lebbra, dalla fame, dalle difficoltà. E lì si erge l'uomo. E io lo capisco stando con loro, e auguro a tutti voi di diventare da oggi persone che sperano nella pace e che lottano per la pace.


fratel Arturo


in Lotta come Amore: LcA marzo 1995, Marzo 1995

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