"Esserci dentro" Esperienze di pretioperai

Nel primo numero di questa nuova serie di Lotta come Amore, avevamo manifestato l'intenzione di seguire il filo della memoria anche per quanto riguarda i 40 anni dall'invito del gennaio 1954 - da parte dell' assemblea episcopale francese - a tutti i preti operai, di lasciare il lavoro a tempo pieno e ad abbandonare ogni tipo di attività 'temporale' (leggi sindacale) entro il l marzo seguente. Questa data è rimasta il simbolo dell'incomunicabilità fra la Chiesa e il mondo operaio.
Ho in mano la tesi, discussa da poco, di una cara giovane amica, Fulvia Raffaelli. Tesi di laurea in Storia contemporanea dal titolo: "Esserci dentro: l'esperienza dei preti operai italiani (1973-1985)".
"Esserci dentro", scrive Fulvia nella Premessa, "il titolo che ho scelto, ha un doppio significato: indica da un lato la volontà di questi sacerdoti di condividere completamente la vita della classe operaia, dall'altro la mia necessità di guardare la vicenda dal di dentro per poterne meglio capire le ragioni e gli sviluppi". Il primo capitolo ripercorre il contesto storico da cui è nata anche la vicenda dei preti operai italiani. Ed è quindi un calarsi dentro le vicende di 40 anni fa.
Mi sono immerso anch'io nella lettura della tesi e se, inizialmente, nutrivo buoni propositi di attenta e meditata accoglienza dello scritto, mi sono, quasi da subito, lasciato andare ad una lettura tutta d'un fiato. E ho riletto, in una sequenza ordinata e ricca di confronti, quella parte della mia storia personale, quel mio esserci stato dentro nel modo quasi totalmente inconsapevole di chi si trova in acqua e istintivamente cerca di stare a galla. Ma non è della tesi che voglio parlare (l'hanno ben giudicata i professori tra i quali Maurilio Guasco ), quanto delle mie reazioni e del confronto tra il mio attuale cammino e le conclusioni tirate da Fulvia su "dove eravamo" nell'85.
Scrive Fulvia al termine del IV capitolo intitolato "Nella crisi": "Uno dei contributi più importanti, sebbene non sempre consapevole, di questa esperienza (quella dei preti operai) resta l'aver reso sempre meno credibile la figura del sacerdote 'specializzato in cose del sacro', che invece la Chiesa in quegli anni si sforzava di ribadire, e di aver quindi concorso ad affermare l'idea del sacerdote 'missionario'. Oggi sono sempre di più i preti che scelgono di svolgere il loro ministero completamente immersi in realtà emarginate quali quelle dei nomadi, dei tossicodipendenti, degli immigrati, del sottoproletariato urbano etc. Al centro del loro impegno non c'è più la cura della comunità cristiana 'acquisita', ma piuttosto la promozione umana, l'impegno sociale che, vissuto in qualità di prete serve da stimolo anche al resto della comunità che, almeno nella sua parte più sensibile, non è più appagata dalla semplice frequenza ai sacramenti. Anche se non sempre questo lavoro è finalizzato a ridare autonomia ai singoli soggetti emarginati, ma piuttosto solo a rimediare alle loro condizioni materiali, in ottica ancora quindi del tutto caritativa, il fatto che la comunità cristiana senta sempre più la necessità di compiere un'azione di testimonianza concreta è già un sintomo di cambiamento di per sé, anche se questa situazione continua a convivere con realtà tradizionali, chiuse in se stesse".
Riconosco, in questa conclusione, la realtà e la modalità di vita e di inserimento nella Chiesa che attualmente viviamo anche qui alla Chiesetta del Porto. Non siamo certo "oltre". E può essere davvero che ci siamo cristallizzati in una dimensione di vita che, tutto sommato, ci gratifica assai. Ma, se la lingua batte dove il dente duole, credo di avvertire con sofferenza, angoscia e trepidazione che la radice di quella vocazione che mi ha spinto nel solco dei preti operai, anche se il tronco è stato decisamente tagliato, spinge la vecchia corteccia a buttar fuori gemme di nuove storie. Parlo di sofferenza e di angoscia perché nessuno meglio di Beppe conosce le mie periodiche esplosioni irte di interrogativi arroccati sul senso del mio (e nostro) essere prete.
Riconosco questa mia natura tanto simile a quella del rovo che, appena ha un po' di spazio, si evolve in impenetrabili sterpaie, ma c'è anche tanta trepidazione dentro di me. Avverto il senso di una vita aggrappata alla continuità di un lavoro (a questo punto il lavoro che riesco a trovare, ed è già tanto quello che attualmente mi dà la busta paga a fine mese), e, come scrivevo tempo addietro in una "lettera ai parrocchiani", questo essere diviso tra il lavoro e una responsabilità parrocchiale lo vivo come indicazione di una frattura di gran lunga più ampia e diffusa tra la fede e la vita. Una divisione che nella Chiesa continua ad esistere tra clero e laicato, tra una sacralità separante e una laicità inginocchiata. Scriveva Sirio, negli ultimi mesi della sua vita, raccontando la sua storia e la sua utopia: "Perché è qui il mio racconto: io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran problema del rapporto fra il clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero" ("Un'utopia per la Chiesa" in LCA nA dicembre 1987). Ecco una lotta da continuare. Dice ancora Fulvia Raffaelli verso la fine della sua tesi: "Negli ultimi anni sono stati infatti pochissimi i preti entrati al lavoro..., (ma) nonostante la crisi e lo smarrimento i preti operai non si tirano però indietro e, riaffermando la loro fedeltà alla scelta fatta, cercano di trovarvi contenuti positivi per il proseguimento del loro cammino di fede... Le spoliazioni non sono ancora finite - si legge nella relazione del Triveneto al convegno di Sassone - ...Mai come ora siamo stati costretti a diventare poveri. In realtà non sono molti i preti operai che hanno rinunciato al lavoro per tornare in parrocchia, sono però molti quelli che hanno accettato di ricoprire entrambi i ruoli: operai per otto ore e sacerdoti in parrocchia per il resto della giornata." (pag. 204).
Ecco, io credo che sia giunto il tempo in cui affrontare un nuovo esodo. Esserci dentro, dentro la condizione di vita di chi è in cammino nella vita perché ad ogni giorno basta la sua pena. Ma uscir fuori, essere fuori dalla condizione di un sacerdozio in parrocchia (o in fabbrica che sia) che non mette in discussione alla radice la sua separatezza. Ed una via per farlo è anche quella di lavorare perché la figura del prete non sia più simile ad una chiave inglese che si adatta alle diverse misure della evangelizzazione, della catechesi ecc. Può essere che questo significhi - anche realmente - uscir fuori di nuovo dalle dirette responsabilità parrocchiali.
O comunque da ogni ruolo in cui l'essere un prete significhi di fatto assumere una posizione direttiva nei confronti degli altri. Quando parlando viene fuori che Beppe ed io siamo parroci, spesso si dice che "abbiamo la responsabilità" di due parrocchie. E per responsabilità si finisce per intendere la gestione. Manageriale, sacramentale, spirituale che sia, si tratta sempre di una responsabilità nell'amministrare un potere. La decisionalità del parroco è attesa, sollecitata, oppure sfidata in mille modi e forme. Non viene invece praticamente mai interessata la responsabilità collegata ad un autentico servizio all'unità della comunità e al senso di un cammino. La diversità delle coscienze, dei doni, dei percorsi di ricerca e di impegno, nelle parrocchie, è quasi sempre vissuta male. La si tollera solo se serve a dimostrare la capacità del parroco nel tirare le fila e ad affermare l'autorità e le ragioni della sua separatezza sacrale. Altrimenti è ostacolo da evitare o da abbattere, quasi mai stimolo per un confronto.
E senza un confronto non c'è servizio, né strada alcuna verso una vera unità: la comunione diventa omologazione, uniformità. L'immagine speculare della Assenza. E perciò un prete non può essere "al di sopra" o "fuori" dalle parti, ma neppure "dentro" in quanto prete che fa la parte del prete. Dev'esserci dentro, con tutta la sua umanità accanto all'umanità degli altri, per segnare la Presenza che dà senso alla vita del mondo. Il sacerdozio, come ogni sacramento, è un dono della comunità per la comunità. Della comunità esistente per la comunità che viene continuamente generata. Ed è in questo clima di dono e di servizio che la separatezza del prete perde ogni ragione di esistere, mostra tutta la sua assurda inconsistenza ed insieme le ragioni del potere religioso che lo vogliono diverso.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA dicembre 1994, Dicembre 1994

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