La posta di fratel Arturo

Cari amici d'Italia,
il mio soggiorno in Italia è stato particolarmente marcato dalla ricorrenza dei 50 anni dalla fine della guerra e dalla celebrazione della Resistenza. Avendo accettato di essere un relatore di questa celebrazione, non potevo farlo se non pensando al senso che ha avuto nella mia vita questo fatto storico che coincide con gli albori del mio sacerdozio, perché non posso cancellare il giudizio severo del Vangelo sulle parole inutili. Nel nostro vivere quotidiano certamente molte parole inutili scivolano dalla nostra bocca, ma trattandosi di un intervento "oratorio" che possiamo giudicare dal di fuori, non potevo eludere la domanda se il mio discorso sarebbe stato utile o inutile, e se inutile, dannoso per chi parla e per chi l'ascolta. Tutti sappiamo che celebrazioni, anniversari, rievocazioni del passato sono delle splendide occasioni di logorree, spesso noiose e vuote, a cui coloro che vivono nel presente e del presente, specialmente se giovani, non prestano la minima attenzione, e che interessano solo chi parla, perché gli si offre l'occasione di esaltare se stesso.
Ho pensato alla possibilità di trovarmi davanti un piccolo gruppo di persone obbligate d'ufficio a subire per qualche ora il supplizio lieve, ma supplizio, di ascoltare parole vuote di interesse. Questo richiamo alla severità e alla essenzialità della parola è diventato per me quasi ossessivo in questo tempo, ritornando fra la mia gente, che ho sentito schiava, alienata dalla parola. E una parola resa suggestiva, affascinante dalla compagnia dell'immagine. Ho avuto, tornando in patria, l'impressione di arrivare ad una terra d'esilio. L'Italia è ancora l'Italia, ho riconosciuto i luoghi, le mie colline sono le stesse, il mio mare aveva quello stesso odore che mia madre non sopportava ed era per me l'odore della vacanza. Ma gli italiani sono in esilio, perché hanno perso la libertà di pensare, di creare, di immaginare, come la persona può fare quando il paese è suo, la casa è sua.
Questa dolorosa sensazione mi ha accompagnato nel mio soggiorno italiano: siamo un popolo schiavo e quello che più è drammatico è che siamo contenti di esserlo. Schiavi dell'idolo mercato che decide a livello personale quali oggetti scegliere nei grandi magazzini e a livello nazionale in quale serie, se A, B o C sarà classificata l'Italia. Schiavi dell'idolo TV che decide le nostre scelte politiche, lasciandoci l'illusione di vivere in democrazia. Ho pianto leggendo del meeting di Rimini che racconta la convocazione di migliaia di giovani che devono applaudire i politici che foraggiano il movimento, qualunque sia il discorso che fanno, le idee che contengono le parole fatte scendere sulle teste che costituiscono il panorama uniforme visibile dall'alto del palco. Quali saranno i personaggi che appariranno nell' anno 1995? Non preoccupatevi giovani, i vostri "educatori" ve li manderanno; preparatevi solo ad applaudire. E' vero che quelli che avete applaudito l'anno scorso hanno scristianizzato il paese e hanno fatto porcherie ancora peggiori? Se non è vero perché avete applaudito quelli del '94? La domanda non è rivolta a voi giovani, pecore senza pastore. Rifletto che quando i movimenti hanno come meta il potere economico, sono alìenati e alienano inevitabilmente. Come si vede nel nostro povero paese, la corruzione non è solo un'attività della mafia.
Vivendo queste esperienze, dovendo mantenere l'impegno di intervenire nelle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, senza vendere l'anima al diavolo, non mi restava altra alternativa che analizzare il senso attuale della Resistenza. Perché per raggiungere il valore che ci fa uomini, la libertà, bisogna resistere. Il moderatore di turno al Convegno osservò che ero andato fuori tema: non aveva torto e sono felice che l'abbia notato. Fuori tema perché non volevo che mi applaudissero per essere stato della falange degli "eroi" del 1944, ma mi proponevo di lanciare l'allarme: bisogna resistere, è urgente resistere.
A chi? All'invasore che raggiunge la radice della nostra libertà a basso prezzo solo tirando su il sipario del teatro di burattini di cui egli è l'impresario generale, per mostrare variazioni dell'unico tema dei bastonati e dei bastonatori, dei furbi e dei fessi, promettendo ad ogni calar di sipario una nuova puntata per raggiungere il risultato di liberarci dalla fatica dì pensare. Resistere ad una forma di religione che ci esonera dall'impegno di fare un mondo meno scandaloso, ad una religione che è così esperta in filologia che ci permette di parlare di pace in un paese che manda navi cariche di armi e di mine che preparano i mutilatini, attori degli sceneggiati televisivi che squarciano la monotonia di gente ben pasciuta con emozioni sempre più sofisticate. Ad una religione capace di calamitare in pochi anni fortune invidiabili senza fatica e di preparare strutture lussuosissime per avere gli spazi dove parlare di povertà e spiegare che cos'è povertà.
Ad una religiosità che non mette al suo centro il Regno, cioè la responsabilità di fare un mondo più giusto, più fraterno.
Non potete immaginare come la resistenza sia entrata nella mia preghiera, al punto da vedere il Crocefisso come il grande, il vero eroe della resistenza. Anche voi, amici, arruolatevi in questa resistenza e vi scoprirete dei sensi che daranno serietà, verità e vero spessore alla vostra vita.
Vi abbraccio


fratel Arturo


in Lotta come Amore: LcA dicembre 1994, Dicembre 1994

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