Da PRETIOPERAI n.26, gennaio 1994, editoriale di Roberto Fiorini: Lo scorso 3 ottobre a Montreuil si sono ricordati i 50 anni della pubblicazione di "Francia, paese di missione?", un libro di H.Godin e Y.Daniel che ha segnato un'epoca. In quel contesto è stata ricordata la drammatica vicenda dei preti operai costretti dal divieto romano culminato con la lettera del card.
Pizzardo del 3 luglio 1959, a scegliere tra la vita operaia e gli obblighi connessi con la vita sacerdotale. Si era alla vigilia del Concilio. Dei 100 preti operai allora impegnati circa la metà decisero di continuare nella loro fedeltà alla condizione operaia.
Proprio a questi non sottomessi, ormai rimasti in pochi (due di loro lo scorso anno sono intervenuti al convegno nazionale dei preti operai italiani e le loro testimonianze sono pubblicate nei numeri 20-21 e 22 di PRETIOPERAI), il vescovo di Soissons presidente della commissione episcopale francese per il mondo operaio si rivolgeva: " ... vorremmo che anch'essi sappiano che noi riconosciamo la loro ricerca di essere fedeli, nel mezzo del dramma, alla loro missione. Vogliamo dire a questi preti che si sono sentiti esclusi che noi siamo pentiti di tutto ciò .che quarant'anni fa, e ancora oggi, ha fatto pensare che la condizione operaia sia incompatibile con lo stato di vita del prete".
Roberto Fiorini riporta in seguito uno stralcio del commento apparso sulla rivista IL REGNO 20/93 pag. 625, a cura di Chierigatti:
"Doloroso è stato pensare all'atteggiamento dei vescovi, dei preti e dei tanti laici cristiani verso coloro che hanno continuato a lavorare rimanendo sacerdoti: sono stati ignorati e ci si è comportati come se non esistessero. Ora si rischia di farne degli eroi ... Giustamente non c'è stata euforia fra i preti operai francesi presenti a Montreuil nel ricevere la dichiarazione dell' episcopato francese: non è stata una vittoria di qualcuno contro altri, ma la dichiarazione di una disfatta per tutti. Non si possono costruire monumenti per gli uomini che si sono prima uccisi...
Sono stati uomini forti, quei vecchi preti che hanno ascoltato con dignità la loro riabilitazione, senza pretendere nulla in cambio...
Il mea culpa dell' episcopato francese non è certamente consolante anche perché altre questioni brucianti sono oggi sul tappeto della chiesa e sono liquidate nello stesso modo dei pretioperai... ".
E così Sirio descrive la sua "obbedienza" alla conferma anche per lui in Italia della decisione della Chiesa:
"Sono oggi otto giorni che sono uscito l'ultima volta. Ho timbrato il cartellino d'operaio con sopra il mio nome e cognome senza il "don", all'orologio di portineria e sono venuto via con una tristezza infinita nel cuore. Sapevo di abbandonarli.
Li lasciavo. Dopo tre anni.
No, è chiaro, non sono più di loro. Anche se facessi miracoli non apparterrò a loro. Non sono più uno di loro e quindi non sono loro nemmeno davanti a Dio.
E questo è terribile.
E questo la Chiesa non lo doveva volere. Perché è giusto che questo povero mondo operaio abbia qualcuno che sia lui veramente e sinceramente davanti a Dio. Che lo rappresenti con diritto.
L'Amore cristiano esige questa "Incarnazione" .
Il sacerdozio ha questo dovere di mediazione.
Rimangono soli anche se io ero spaventosamente nulla. Anche se incredibilmente indegno, ero il loro sacerdote.
Ogni mattina alla Messa. In tutta la preghiera. In tutta la mia ricerca di Dio. Nel mio povero sforzo di libertà e di presenza. Nella mia situazione umana e sociale. Nel mio morire a tutto il resto. Nella sofferenza a cuore aperto di tutto il dramma operaio in tutto il mondo e particolarmente in Italia. Nell'umiliazione di essere povero e nulla come loro. E di essere perfino incapace di un buon mestiere. Nella fatica di ogni giorno. Nella schiavitù della sirena. Nella sfinitezza di tante sere dopo giornate tanto dure e penose. Nella povertà di quella povera busta presa dopo aver fatto una lunga coda: e l'amara sorpresa di quel poco, e sapevo bene, e glielo leggevo in faccia, che per loro con moglie e figli e affitto di casa e tutto il resto era ancora più poco.
Il loro prete. Anche di quelli che non credono in Dio, che non vanno mai in chiesa, che nemmeno vogliono sentir parlare dell'anima... tutti ugualmente, senza la minima differenza, ma anzi preferendoli, ho raccolto nell'anima mia e nel mio sacerdozio. Senza nemmeno dir loro una parola, non pretendendo mai assolutamente nulla, nemmeno che sapessero del mio Amore e tanto meno che lo capissero e meno ancora che lo corrispondessero.
Ma li ho raccolti così come sono, in blocco e uno per uno anche se dispersi su tutta la terra, chiedendo a Dio che li amasse così com'erano e trovasse Lui il modo perché niente di loro andasse perduto. No, non ho potuto sopportare che tutta la loro vita si esaurisse sotto quel torchio di lavoro e di schiavitù alla fatica per avere l'indispensabile per non morire. Che tutto il valore umano - è in Dio che ho conosciuto quanto valga questa povera realtà umana, è in Gesù che ne ho scoperto la misura di valore - finisse in una materialità soffocante e avvilente, in una miseria morale incredibile, dentro limiti che non vanno al di là del mangiare e del bere e di dormire con una donna. E che tutto il travaglio di avere una famiglia e di mantenerla con tutti quei calcoli che vanno dall'usar della propria moglie col terrore di un figlio dopo il primo o al massimo dopo il secondo, fino ai conti della spesa e dell' affitto e delle cambiali e delle medicine e tutto il tormento della vita d'ogni giorno... che tutto insomma li uccidesse spiritualmente riducendoli a povere macchine come quelle dell'attrezzatura del cantiere.
No, questo è insopportabile e volevo che un prete vivesse interamente questo terribile problema di materialismo e vi portasse per mezzo del suo Sacerdozio-Redenzione di Cristo, un po' di salvezza.
Ma non discorsi o lamenti, ma caricarsi di tutto, come se tutto fosse proprio tentando di portar tutto questo carico enorme a Dio per mezzo di Gesù... ".
(Sirio Politi, "Uno di loro", ed. Gribaudi)
Nel numero di marzo 1994 del COURIER P.O., il trimestrale dei preti operai francesi, in un inserto speciale che ricorda i 40 anni dal primo pronunciamento di sospensione dell' esperienza, riporta un saggio di M.Dominique Chenu, noto teologo domenicano, apparso nella rivista "La Vie Intellectuelle" nel febbraio 1954, di cui riportiamo la parte finale:
"Quali che siano le modalità di uno statuto da definire, appare chiaramente che questo ministero è comandato da un atto primo e assai difficile di presenza nel senso forte che diamo oggi a questa parola. Una presenza di Chiesa, che sola realizza, nella circostanza, una comunione di vita. Come battezzare una civiltà se non vi si entra? Una presenza non è certamente ancora un insegnamento (didaké) né un sacramento. Ma è la condizione della parola, compresa la Parola di Dio. E' in tutta la forza del termine e l'emozione diffusa di fronte alla messa in questione dei preti operai lo prova - una testimonianza efficace di fede. E' la prima espressione, spesso silenziosa in parola ma mai in atti, di una vera evangelizzazione, e del volto finalmente visibile della Chiesa.
Le condizioni ineluttabili di una presenza, oltre l'abisso delle assenze e dei muri di separazione, sono da prendere in considerazione e da misurare. Ma, se si restituisce al sacerdozio la sua prima dimensione, le condizioni, poste dalla gerarchia, non somiglieranno più - come queste - a delle concessioni miserabili e grette, ma al contrario ad una garanzia della presenza dello Spirito nella Chiesa e una speranza cristiana per il mondo che si va preparando".
in Lotta come Amore: LcA aprile 1994, Aprile 1994
Luigi Sonnenfeld
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