Mi è impossibile, prendendo la penna in mano per scrivere il mio articolo per il giornalino, non raccogliere pensieri ed immagini che in questi mesi (e da tanto tempo, purtroppo) hanno accompagnato in modo amaro e drammatico il cammino quotidiano. Mi sono entrati nell'anima i volti di uomini, donne, bambini, gente di ogni età, che ogni tanto - anche se per pochi attimi - sono apparsi davanti ai miei occhi nei flash dei telegiornali o nei servizi dalla Bosnia. E' questo "povero popolo" martoriato, affamato, distrutto, di ogni gruppo etnico, di ogni città o villaggio della Bosnia che mi è penetrato dentro, fin nel midollo dell' anima.
Sono riapparsi dentro di me volti ed immagini che porto impresse da quando ero bambino e la guerra era lì davanti a me, sopra di me, parte del mio vivere quotidiano. Nell'impotenza assoluta di fronte a questo folle e assurdo massacro, è questo povero popolo lacerato e diviso, costretto a scavare tombe nei giardini, nei campi sportivi, nelle strade, che sento penetrare nell'anima mia come una spada affilata. Questo povero popolo (che è quello di tutte le guerre) rinchiuso ancora una volta nei campi di concentramento, violentato nelle donne, dilaniato nella carne dei suoi poveri morti, in ogni angolo di quella terra che doveva essere bella e ricca di alberi, di fiumi, di vita ... E' questo povero popolo, questa umanità che non mi abbandona mai, con il suo terribile carico di dolore davanti al quale non c'è possibilità di rassegnazione. Di fronte alla sua tragica, spaventosa tragedia io mi sento (come penso accada a tante persone) schiacciato ed oppresso dal peso dell'impotenza e da un acuto sentimento di sconfitta. E' come sentir gridare aiuto dentro un palazzo in fiamme e non avere nessuna possibilità di rispondere a quella invocazione di soccorso... Questo però non significa dover arrivare alla conclusione amara che bisogna rassegnarsi e chinare la testa di fronte alla forza degli eventi.
Anzi, da questa tragedia che ha sconvolto come un uragano la storia di una convivenza che doveva avere i suoi problemi, ma che difficilmente era prevedibile dovesse finire in un così spaventoso massacro, mi è ancora di più fiorita dentro l'anima la necessità e il bisogno di ribellione. Credo che questa parola esprima bene ciò che ho sentito e sento chiaramente nella profondità del mio essere.
Penso che occorra cercare sia individualmente sia insieme di dare significato e valore alla realtà di una ribellione che metta radici dentro il cuore e si diffonda il più possibile come valore, come modo di vita, stile di partecipazione, forza propositiva di cambiamento. Ribellione alla guerra, alla cultura della guerra, all'idea del nemico; ribellione all'idea di una patria intesa come un pezzo di terra da difendere col sangue e con la morte propria e degli altri.
Ribellione morale, religiosa, culturale, politica, sociale all'idea della necessità ed inevitabilità della guerra: una ribellione che possa condurre fino al traguardo di dichiarare la guerra un crimine in se stessa, un crimine di "lesa umanità". Sono passati vent'anni da quando Sirio scrisse un testo molto intenso e appassionato per una rappresentazione teatrale dal titolo "Una Fede che lotta". Il tema era la ribellione contro la tragedia dei morti sul lavoro (allora si chiamavano "omicidi bianchi") e dei morti in guerra. Ribellione alle leggi della morte violenta, alle ragioni dello sfruttamento economico che non guarda in faccia l'esigenza di sicurezza e di vita di chi deve guadagnarsi il pane quotidiano e ribellione alle ragioni dello sfruttamento politico-militare che ha fatto e continua a fare dell'esercito e della fabbricazione delle armi un "motivo essenziale" per la vita di un popolo. Ribellione, rifiuto, lotta contro una cultura di "amor patrio" che trova ampio spazio sia nella realtà laica come in gran parte del "mondo cristiano". "Ribellati, o popolo, alla legge di guerra; làvati il sangue che le mani ti macchia; se vuoi che l'uomo - vicino o-lontano - un nemico non sia, ma ti stringa la mano". Questo era un pezzo forte della rappresentazione teatrale: il tema di fondo nasceva dalla constatazione che di fronte all'immane tragedia di ogni guerra, il dramma è vissuto dal "povero popolo" di cui nessuno ha veramente e sinceramente pietà. La tragedia del popolo bosniaco, nella molteplicità delle sue razze, lingue, culture, religioni, credo sia un'emblematica e terribile riprova di questo fatto. Mi ha molto impressionato che più volte da parte di autorità religiose cattoliche, ortodosse e musulmane si sia insistito che la guerra che ha lacerato la Bosnia non deve essere considerata una guerra di religione. Ma il problema per me è un altro: il fatto religioso, la propria fede, il riferimento personale e collettivo a Dio che significato ha avuto in questo terribile sconvolgimento? Ho cercato di interrogarmi sinceramente, a cuore aperto: credo che il problema stia tutto nella capacità che la scelta religiosa fatta con cuore puro e sincero, dovrebbe portare ad una immediata, radicale, totale ribellione contro la guerra. Di fronte alla guerra, per il credente - se il suo Dio è il Dio della Vita, della Misericordia, dell' Amore - non c'è altra strada che la diserzione, il rifiuto, la respinta, 1'opposizione. La fede, se è limpida e vera, non può che portare ad una posizione di assoluto rifiuto di tutto quel mondo politico, militare, economico, religioso, che in molti modi - alcuni più espliciti, altri più sottili e camuffati - sostiene, incoraggia e mantiene la possibilità concreta della guerra. Non basta che il Papa invochi la pace. Non basta il suo invito a fermarsi. Non basta il suo grido e la sua sincera angoscia. Occorre una ribellione popolare, un rifiuto coraggioso, una cultura coerente con le ragioni del dialogo, dell'accoglienza, dello scambio, della diversità come valore.
Bisogna maledire la guerra con la parola, ma nello stesso tempo occorre smilitarizzare il tessuto sociale, la struttura dello stato, la stessa realtà ecclesiastica che dopo tutto ciò che è accaduto nella storia ha ancora il coraggio di mantenere in piedi la realtà dell'Ordinariato militare (vescovo militare, cappellani militari, diocesi militare) e continua ad essere presente in modo perfettamente integrato in quella macchina da guerra che è per sua natura 1'esercito.
Bisogna cambiare rotta, operare un cambiamento che incida nel concreto del meccanismo della guerra. Bisogna riuscire con infinita tenacia e pazienza, senza arrendersi e senza stancarsi, a costruire un modo di sentire e di pensare che rifiuti il concetto di una "morte gloriosa" sui campi di battaglia, di "eroi di guerra" , di "sacrificio necessario" . Lavorare in profondità, in modo quotidiano e fedele, per la crescita di un sentire comune, popolare, allargato, che costruisca il rifiuto della guerra e lo faccia diventare un modo primario di essere. Nel crudo inverno di tutta la tragedia bosniaca qualche fiore di speranza è spuntato, anche a durissimo prezzo: tutto il movimento, molto ampio e diversificato, dei "volontari di pace" che hanno condiviso in molti modi le terribili sofferenze del "povero popolo" di quella terra straziata, rappresenta un motivo di grande possibilità di cambiamento. E' stato sicuramente un modo di ribellarsi alla logica della guerra, un movimento di rifiuto e di coraggiosa opposizione: da questa testimonianza e da questa lotta può nascere una primavera di pace.
don Beppe
in Lotta come Amore: LcA aprile 1994, Aprile 1994
Luigi Sonnenfeld
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