Il coraggio di operare

Le parole e il pensiero di Dietrich Bonhoeffer grande teologo evangelico, resistente, incarcerato a Berlino e ucciso a Flossenburg il 9 aprile 1945, continuano ad imprimere un grande amore alla vita e la forza di reggere l'urto con le ricorrenti tentazioni a mettere i remi in barca e lasciarsi trascinare dalla corrente.
Scrivendo dal carcere di Berlino-Tegel alla fidanzata Maria, così si esprime: "Il nostro matrimonio deve essere un sì alla terra di Dio, deve rafforzare in noi il coraggio di operare e di creare qualcosa sulla terra. Temo che i cristiani, che osano stare sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in cielo".
Oggi più che mai abbiamo bisogno di confrontarci con queste parole. Per noi stessi, prima di tutto. Per una speranza che non si spegne nelle acque amare delle proprie illusioni, ma, resa energia vitale, dà sostanza autenticamente umana ad ogni passo, ad ogni gesto della nostra vita. Per una ricerca non più rivolta a strategie capaci di vincere una volta per tutte le contraddizioni della nostra storia, ma a cambiare con mite ostinazione la terra su cui poggiamo i piedi.
Per anni ci siamo arrampicati sulle taglienti sottilizzazioni delle differenze tra il "pubblico" e il "privato", il "personale" e il "politico", il grande" e il "piccolo", ora esaltando ora comprimendo volta volta le categorie poste a confronto. Proiettandole fuori di noi, sugli ipotetici schermi di un immaginario collettivo. Ora - ci sembra -, questo mondo reso villaggio gioca (ed è abilmente giocato) a tutto campo nel mescolare le carte imprimendo al singolo episodio i contorni del grande evento e passando sotto silenzio i drammi di intere collettività.
Questo produce stordimento, confusione, imbarazzo ed infine paralisi nella capacità creativa e nella concreta operatività. Come se fossimo preda di un infinito gioco di specchi, spesso non osiamo muovere un passo in una qualsiasi direzione e proviamo la disperante sensazione di essere imprigionati in un labirinto. Qualunque mossa, qualsiasi movimento, azione, impulso svanisce nelle nostre mani e nel nostro cuore, intrappolato dalla vertigine che misura l'ampiezza e la profondità dei problemi che dobbiamo affrontare e la confronta con i pochi centimetri quadrati sui quali poggiano i nostri piedi esitanti. Fino a sentire il bisogno di alzarne uno, tanto per far vedere a noi stessi, prima, e poi anche agli altri, che ci stiamo muovendo, che abbiamo intenzione di fare qualcosa e che già lo stiamo facendo. E rimaniamo così con un piede in aria, in equilibrio precario, spendendo fior di energie pur di non essere sorpresi (da chi poi non sappiamo) con tutti e due i piedi in terra, magari cercando faticosamente di spostare il proprio baricentro per compiere anche solo un passettino, ma - vivaddio! - un passettino vero.
Ci guardiamo attorno smarriti, alla ricerca dei maestri e dei profeti che eravamo abituati a seguire invidiandone il corposo senso di presenza alla vita, e ci sgomenta la solitudine e il silenzio che ci circonda. Forse, un po' come dei bambini, abbiamo preso troppa confidenza di fronte al dono delle parole forti, dello sguardo teso all'orizzonte di uomini come Turoldo, Balducci, Sirio ... , della loro amicizia, della loro forte personalità. Fino a considerare un passo decisivo per noi l'esserne discepoli e seguaci. E a sentirei in diritto di portare il lutto per la loro scomparsa. Uomini e donne di poca fede! Non sapevamo forse che anche la terra dove poggiano i nostri piedi è destinata a portare frutto perché fecondata da una comunione d'amore? Non sapevamo forse di lottare insieme a loro perché ogni uomo, ogni donna potesse alzare la testa e camminare nella dignità di una umanità nuova? Come possiamo essere così ciechi da continuare ad invitarli - calata la sera - alla cena delle nostre memorie, dei nostri ricordi, senza che il cuore ci sussulti nel petto e la buona novella della Risurrezione ci converta ogni giorno alla vita come soggetti di una storia nuova?
E' venuto il tempo - ed è questo - in cui la profezia appartiene a coloro che tengono tutti e due i piedi per terra e sognano non di lasciare un'impronta, ma di non lasciare la terra perché questa ha già nel suo seno la dimensione del cielo. Ed ogni trasformazione, ogni nascita nuova, ogni gesto, ogni segno - anche il più piccolo! - che ne porta notizia, è già grande perché appartiene alla comunione di un popolo innumerevole che solo Dio può contare.
Occorre guardare in faccia la nostra paura e volerle bene. Sentire che il coraggio, il coraggio vero di sè e della propria vita, non nasce quando si è forti al punto tale da scacciare la paura, ma quando la si accoglie come sorella che ci impedisce di volare come spiriti celesti e ci costringe a camminare come esseri umani. La grande paura di morire e le mille paure che appesantiscono ogni giorno il cuore, lo spirito e il corpo. La paura di non essere amati e di non poter veramente amare. La paura terribile di essere già stati giudicati e di portare con sé la maledizione di una colpa nota solo al Giudice e che solo sacrificando tutto di noi al Giudice, può essere tolta. E con essa ogni difficoltà, incomprensione, fatica, separazione, sofferenza... La paura che ci iscrive in un cerchio che va spezzato per una liberazione autentica e completa attraverso il coraggio che la accoglie non come ostacolo insuperabile, ma come indicazione della misura e della ampiezza di questa lotta. Il coraggio di rispondere ad un appello alla vita che cuce le nostre esistenze in un tessuto di incontri innervati sul filo del quotidiano operare.
Ci sembra che un brano di Sirio, tratto da "Antico Sogno Nuovo", letto durante la liturgia del sesto anniversario della sua morte, contenga questo invito nel dialogo tra due donne di nome Speranza e Fede:
"E' vero", e le parole rilucevano negli occhi di Speranza, "è vero che vivere è camminare verso l'incontro, anche se il pedaggio da pagare è ancora", e chissà per quanto tempo, "lo scontrarsi impietoso e a volte crudele". "Perché", spiegava Fede, "bisogna versare tutte le lacrime prima di imparare a sorridere e camminare tutte le strade per poter arrivare" .
"Perché è anche vero, cara Fede" , precisava silenziosamente Speranza, "che l'uomo non arriva finché non smette di viaggiare" .
"Per arrivare dove", chiedeva quasi con sgomento Fede.
"Per arrivare in un luogo che non è un luogo, in un tempo che non è un tempo" .
"Per arrivare", chiariva un gesto di Fede che aveva ben capito ed era d'accordo, "nel luogo in cui soltanto i sogni hanno conoscenza e in certi momenti di grazia, la preghiera" .
"Noi siamo su questa strada", affermava con dolce fermezza lo sguardo di Speranza.
"Noi chi?", voleva una risposta sicura Fede. "Io e tu, intanto", puntualizzava Speranza.


La Redazione


in Lotta come Amore: LcA aprile 1994, Aprile 1994

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