Don Fausto Barbieri

Scomodo lo era sempre stato don Fausto, fin dal tempo del Seminario, per noi compagni e anche per i superiori. A quel tempo tra noi si parlava tanto di contestazione, si teorizzavano nuovi modelli di società e nuove esigenze dell'essere prete; don Fausto non partecipava molto di queste discussioni: ogni tanto si portava in stanza qualcuno della Piazzetta per fargli fare una doccia calda, oppure usava del tempo libero per le compere per essere presente con questi amici "sconvenienti" secondo i canoni comuni per un buon seminarista. Questo atteggiamento metteva in discussione le nostre belle teorie e al tempo stesso proponeva un modello di prete che sa essere attento a tutte le realtà varcando se necessario i limiti di una parrocchia per proporre, più attraverso una presenza solidale e amica che non con le parole, il Cristo che libera e salva. Confesso che noi compagni lo invidiavamo per questa sua capacità di farsi uguale agli altri, di intessere rapporti anche con le persone apparentemente più distanti dal nostro modo di essere e di pensare.
Lo ha sintetizzato bene don Piero quando ha definito don Fausto un uomo semplice. Lo si vedeva anche dai suoi quadri, esposti domenica a San Gervasio, dove predominano i campi, i tramonti, la natura e le cose umili della vita del contadino. Lo hanno sperimentato i suoi amici e compagni, i preti che con lui condividevano questa scelta, i piccoli fratelli e le piccole sorelle di Charles de Foucauld, con i quali si sentiva in sintonia spirituale, le altre suore laiche che accompagnano i Sinti e i Rom. Questa semplicità l'hanno sentita soprattutto coloro che vivono ancora ai margini della nostra società, perché non vogliono, per scelta o per cultura, "integrarsi" con i nostri modelli di vita: i nomadi, i madonnari, i girovaghi, i giovani che vivono alla giornata... Da don Fausto non avranno certo sentito tante prediche moralistiche o tante parole altisonanti. Avranno però sentito qualcuno che si faceva vicino ai loro problemi, alle loro sofferenze, alle loro "diversità'', senza volerle giudicare, ma cercando di comprenderle e valorizzare in esse quel "buono" esistente e che è il cammino che ci fa incontrare Dio.
Raffaele Donneschi
da "La Voce del Popolo" 12 aprile 1991


Qualche tempo fa mi accadde di cogliere al volo una frase, durante un incontro di amici. Si riferiva alla morte di un giovane prete che faceva il madonnaro. Viveva, cioè, esercitando [' antico mestiere di disegnare, con gessetti colorati, immagini sacre sulle grandi pietre del sagrato delle chiese raccogliendo i frutti spontanei della approvazione della gente. Un'arte povera irrimediabilmente destinata a scomparire calpestata o lavata dalla pioggia.
Immediatamente mi venne in mente un giovane che bussò alla porta della Chiesetta, tanti anni fa, e cercava Sirio. Disse di essere un prete e non lo dimostrava (non tanto per gli abiti ché eravamo abituati a vederne pochi in talare da quelle parti, quanto per modi tranquillamente ordinari). Raccontò che era venuto a Camaiore per partecipare ad un concorso nazionale per madonnari, non tanto per vincere o meno, quanto per conoscere colleghi sulla strada come lui. Era rimasto assai deluso dalla manifestazione che aveva attirato più artisti che si cimentavano sulla pietra di autentici girovaghi della strada.
Ricordo che gli facemmo un sacco di domande sulla sua vita quotidiana e sui "trucchi" del mestiere, specie sui permessi e sui problemi dell' occupazione del suolo pubblico, le sue schermaglie con vigili urbani e polizia, i fioretti vissuti con parroci molto più disposti a chiamar la forza pubblica per far allontanare quel "sedicente" prete che ad accettare anche solo un piccolo impegno di dialogo e di interessamento alla figura di una madonna che stava emergendo sul sagrato della "loro" chiesa. Ritornò alcune volte. Appariva all'improvviso, solo o con dei compagni ficcati a forza dentro quella sua macchinetta che serviva da camper. Scambiava due parole; la tavola con frugalità; ripartiva alle ore più impensate, attratto dalla strada come da un'amante gelosa.
Non ho più saputo niente di lui da quegli anni settanta, fino alla notizia della malattia che lo ha distrutto. Inspiegabilmente mi è nato dentro un grande desiderio di incontrarlo e il bisogno di rivolgergli alcune domande. Non è cosa razionale, lo so, e d'altronde queste domande neppure mi si chiarivano dentro, Ho cercato di parlare con qualcuno che gli fosse stato vicino negli ultimo tempi ed ho avuto la fortuna di incontrare una sua amica con cui ho rivissuto i suoi ultimi giorni. E mi sono imbattuto in una frase di don Piero, suo "compagno di viaggio", che mi ha chiarito le domande che erano sorte in me. Don Piero lo ha definito "sconcertante nel suo sapersi identificare con la gente semplice della strada". Che fortuna che ci siano ancora persone che sconcertano in questo modo!
Ecco, è questo sconcerto, questo stupore che mi provoca ad interrogare, a chiedere qual'è la fonte, l'origine e l'energia di questa identificazione, di questo sapersi mescolare con gli altri in un modo naturale, oserei dire sacramentale. E cioè non confuso, con modi ed abbracci. sia pure rettamente, intenzionali, ma chiaro nella perfetta aderenza tra il segno delle mani che si stringono e la realtà di un incontro personale ricco della sua semplicità. Non so come e quando questa ricerca proseguirà. Lascio che maturi dentro di me e so che devo attendere che sulla pietra scheggiata della vita appaiano i delicati colori che disegnano il mistero.
***



in Lotta come Amore: LcA dicembre 1991, Dicembre 1991

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