Il rischio di amare il popolo

Mi interessa molto l'affettività dei missionari, siano essi religiosi o laici, perché vivendo nei quartieri poveri dell'America latina, vedo che qui l'affetto è un diritto genericamente negato.
Sommerso com'è dalle numerose proposte di aiuti che gli giungono, il popolo sa distinguere chi veramente lo ama da chi soltanto dice di amarlo. Di recente, parlando ai membri di un organismo di assistenza ai paesi poveri, ho manifestato questa convinzione. Mi hanno risposto che, in questo campo, il popolo potrebbe anche illudersi di capire, come accade quando gli tocca di scegliere i candidati politici. Ho difeso con tutte le mie forze la capacità discrezionale dei latino americani, che considero infallibile in questo aspetto: se fosse loro negata anche questa facoltà, sarebbero veramente le creature più sprovvedute della terra.
Il vero guaio per questo povero popolo è un altro: quando un agente pastorale o un missionario giunge ad amarlo in profondità, viene immancabilmente rimosso e invitato a partecipare ad un corso di specializzazione in un'università o ad andare a dirigere un collegio, aperto da poco, alla periferia di una città dell'Europa orientale. Altre volte, più brutalmente - ed è questo lo stile che si va instaurando -, viene privato, di punto in bianco, del suo incarico e allontanato dal luogo di lavoro. Naturalmente non si tratta di porre termine a comportamenti o relazioni 'affettive' che possono suscitare scandalo, quanto piuttosto di togliere di mezzo una persona scomoda ai potenti perché troppo 'amante' del popolo.
Ripeto: il popolo sa discernere chi ama e chi non lo ama. Dirò di più: credo che abbia ricevuto da Gesù l'incarico di rendere umana la 'missione' dell'apostolo e di dare un volto più 'amichevole' all'intero processo di evangelizzazione. Nel capitolo decimo del vangelo di Luca è infatti descritta la parte riservata al popolo nell'attività apostolica dell'inviato di Cristo: è il popolo che apre sua casa al discepolo per offrirgli un posto a tavola; è ancora il popolo che accoglie il missionario di Gesù e se lo fa amico, dedicandogli tutto il tempo necessario. Si verifica così quella reciproca fecondazione tra vangelo e cultura di cui parla il Vaticano II.
Il popolo non è passivo, ma ricopre una funzione importante nella formazione dell'affettività del 'missionario': consente all'inviato di Cristo di entrare in un'atmosfera di amicizia in cui potrà offrire una 'notizia buona', e non dare ordini. Se affermo, pertanto, che l'affettività è una componente essenziale di tutte le nostre attività evangelizzatrici e deve trovare tutti i canali liberi per potersi espandere, non dico nulla di nuovo.
Le comunità di base mi hanno offerto una verifica costante della verità espressa nel capitolo decimo di Luca sulla missione. Nel discorso che Gesù fa ai settantadue discepoli c'è l'indicazione del 'rimanere', necessario all'amicizia e contrapposto al passaggio frettoloso del dottore della legge che ha molte cose da fare e se la sbriga il più in fretta possibile, rischiando però di 'passare oltre', scansando l'uomo nel bisogno. E c'è anche l'idea di un popolo che non è solo 'oggetto di evangelizzazione' , ma autentico agente della costruzione del Regno: è il popolo che accoglie, che riceve, che dà ospitalità, che offre da mangiare, e che sperimenta così la gioia di uscire dalla categoria dei miserabili che attendono solo e sempre dagli altri. Fortissima è pure la sottolineatura data alla povertà dell'evangelizzatore: "Non portate né borsa, né sacco, né sandali". Chiara, infine, la 'linea politica': "Quando entrerete in una casa, dite subito a quelli che vi abitano: Pace a voi!". Gesù non lascia dubbi: è solo dando che si riceve. In questo spirito, anche la formazione affettiva dell'inviato avviene come processo normale e spontaneo di una relazione d'amicizia: il missionario, prima ancora di essere un maestro, deve essere un amico.
Ma quanti missionari scontenti e delusi ho incontrato nella mia vita! Se uno è partito da una profonda esperienza personale di Cristo - e non da un programma steso da altri, per scaltri e previdenti che siano - arrivato alla fine della sua vita, potrà anche dire a chi l'ha invitato a seguirlo che non è stato facile, e forse anche 'rimproverarlo' amichevolmente - come fece Teresa d'Avila - per avergli riservato fatiche e dolori, ma non dovrebbe mai - assolutamente mai - sentirsi frustrato.
Un giorno ho incontrato una giovane suora. Proveniva da una famiglia di contadini e serbava ancora vivo nel cuore il ricordo del padre che aveva dovuto lottare tenacemente per allevare sette figli. Il convento in c viveva era un'antica villa con una lussuosa piscina cui si accede da un imponente scalone di marmo. Una giovane donna come questa che ha dovuto compiere un così radicale passaggio tra due stridenti stili di vita, dimostrerà di essere una persona normale soltanto se manifesterà degli scompensi psichici. In caso contrario, se cioè accetta tranquillamente questo cambio di vita e di ambiente, se dà per scontato il fatto che diventare religiose comporta l'uscire dalla baracca per entrare in villa, allora vuol dire che la sua affettività è già compromessa: prima o poi colerà a picco. Potrà diventare un'ottima professoressa di un collegio per figli di borghesi o una valida infermiera in una clinica privata a pagamento e produrrà reddito per la congregazione, ma sarà incapace di donare amore. La crisi però è sempre in agguato.
Penso che lo Spirito veglia sempre su ciascuno di noi e, in un modo o nell'altro, sa cogliere l'occasione buona per riaprirci all'amicizia col popolo. Ma intanto la gente comune continua ad essere defraudata del sacrosanto diritto di essere amata.

Arturo Paoli
(da "Nigrizia", maggio 1991, p.43)


in Lotta come Amore: LcA giugno 1991, Giugno 1991

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