Ho capito di capir sempre meno

Avevo in mente di comunicare attraverso queste pagine qualche riflessione sulla mia permanenza in Etiopia. Durante questi ultimi cinque anni mi sono fermato diverse volte per alcuni mesi in una missione cattolica circa 200 km. a sud di Addis Abeba. Mio compito era aiutare l'inizio di una piccola attività di carpenteria in ferro nell'ambito di laboratori scuola all'interno di una piccola "citta' dei ragazzi" orfani o comunque appartenenti a famiglie povere. Scrissi qualcosa all'inizio, dopo la mia prima esperienza.
Poi più nulla. E mi riusciva anche sempre più difficile di parlarne con quanti mi chiedevano cosa stessi facendo. Mi sono reso conto sempre più di capire sempre meno. E non era questa la ragionata sensazione di chi si dispone con umiltà a raccogliere i dati di un problema più vasto e complesso di quanto all'inizio fosse stato dato di vedere. Era ed è piuttosto una sorta di confusione e di stordimento.
La sensazione di non dover comprendere perché ciò che mi interessava in fondo era essere compreso e più propriamente e fisicamente preso in mezzo.
Intuivo che questo sempre meno mi dava la possibilità di gestire la mia identità e che venivo usato da destra e da sinistra, ma sapevo anche con lucida certezza che questo mi interessava assai poco. Perché, per un processo a me misterioso, avvertivo più chiaramente un'identità che scopriva me a me stesso. E innocentemente. Oltre ogni utilizzazione.
Perché forse tutto questo mio pellegrinaggio tra Viareggio e Assella non è stato altro che un semplice lasciarmi amare fino a riuscire anche ad amare. Oltre qualcosa e qualcuno. Oltre la terra immensa e bellissima. Oltre le persone ognuna con il fascino della propria storia e della propria individualità.
Capisco che tutto questo può essere solo banalissimo sentimentalismo, ma non riesco a darmi altra spiegazione e non so, sinceramente, se davvero mi interessa tentare di farlo.
Mi è capitato quasi per caso, sotto il naso, questa lettera di Arturo Paoli pubblicata sul mensile missionario "Nigrizia". Mi è parso, questo suo scritto, così vicino a quello che tentavo di esprimere, anche se con parole e attraverso esperienze sicuramente assai più fragili delle sue. Così riporto (su Lotta come Amore,) le parole di Arturo ponendo alla vostra attenzione soprattutto quelle che sottolineano un'autentica soggettività del popolo nella accoglienza. Una soggettività spesso negata nei fatti, oltre le buone intenzioni. Riconoscere agli altri, nella loro spesso disorientante diversità, il diritto a manifestare fiducia e stima e desiderio di incontro, ad aprirci la porta perché si possa entrare in un mondo che non è il nostro, è ancora punto di partenza nell'incontro tra il sud e il nord a qualsiasi livello. Anche e soprattutto al livello della mia sciocca presunzione di aver fatto con un pugno ragazzotti etiopici qualcosa di buono.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA giugno 1991, Giugno 1991

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