Firenze, 2 dicembre: Giornata Internazionale del Volontariato.
La mia preparazione è tipicamente artigianale. Vivo una realtà molto circoscritta ed un quotidiano fatto di lavoro manuale e della lettura di quel libro non scritto che è lo scorrere lento ma continuo della vita di tanta gente.
Dico questo perché sono consapevole di usare un pennello invece della penna certo più adatta a scrivere di realtà complesse, articolate, che ci coinvolgono. E non vorrei confondervi ancora di più perché quando parlo di pennello non intendo certo quello usato dagli artisti che hanno affrescato queste imponenti pareti di Palazzo Vecchio, ma, ad un livello infinitamente più modesto, parlo della pennellessa dell'imbianchino.
E vorrei invitarvi con me ad uscire da questo imponente e storico salone dei Cinquecento per seguirmi in una stanza assai ordinaria nella dimensione e nello stile e a dare con me alcune pennellate sulle quattro pareti. Abbiamo nell' ordine una parete con una piccola libreria, dei dizionari, dei libri, quindi una parete dove si apre una finestra con ampio orizzonte, poi una terza parete con un divano ed infine l'ultima con un pianoforte.
Ecco, siamo nella nostra piccola stanza e sfogliamo un dizionario. Volontariato e pace. Perché atteggiamenti, stili di vita, scelte originate da motivazioni diverse e che pure si incontrano in una visione positiva e ricca della multiforme manifestazione della vita e della umanità in questo mondo, perché volontariato e pace sono quasi sempre descritti, o meglio, chiamati al negativo, "in contrapposizione a", per quello che non sono, prima e piuttosto che per quello che sono?
Ho tantissimi volontari giovani davanti, eppure credo che se dovessero esprimersi sul "loro" volontariato non lo farebbero con gli schemi progettuali delle teste pensanti del movimento, ma lo farebbero con i termini coniati dalla generazione che li ha preceduti e cioè precisando che è non pagato, non pubblico, non politico, non professionale.
E così la pace, quando ci si allontana troppo dai suoi spesso scomodi testimoni non diventa forse generico pacifismo, non volontà di guerra, non violenza nemmeno di fronte a se stessi per affrontare a viso aperto la vita e le sue contese? Là dove ormai l'immaginario non riesce a discostarsi dal fucile spezzato o dalla ormai decotta colomba picassiana?
Vorrei trovare un libro dove il volontariato e la pace si esprimessero con categorie positive, parlando direttamente di sé senza doversi sempre definire tramite il confronto con il loro vero o supposto contraltare. Temo altrimenti una continua omologazione ai contrari ed una mancanza di progettualità positiva e fiduciosa nel cambiamento. Forse dovremmo veramente essere più convinti che siamo noi - ciascuno di noi e tutti quelli che ci sono compagni di strada - le parole di questo libro affidato alla lotta quotidiana per una vita e per una società solidale. Guardiamoci intorno; passiamo alla seconda parete e apriamo questa piccola finestra sul mondo. Un mondo dove si frangono ondate di speranza e ondate di paura, vita e morte in continuo duello. Dove volontariato e pace trovano i loro lineamenti storici e confrontano il loro aspetto ideale.
Ho letto su "Repubblica" un'intera pagina dedicata al servizio sanitario presente nel corpo di spedizione americano nel Golfo. Medici richiamati alle armi con una esperienza professionale troppo lontana dallo specifico dei traumi provocati da un conflitto armati. Medici che in vita loro, per esem-pio, non hanno mai visto una ferita d'arma da fuoco. Un problema per gli strateghi e i pianificatori del Pentagono.
Si sono però quasi subito resi conto che non avrebbero dovuto improvvisare nessun teatro di esercitazione: una piccola grande guerra è in corso nelle periferie delle grandi città e il pronto soccorso di certi ospedali non ha niente da invidiare alle esperienze sanitarie in prima linea. Così i medici richiamati alle armi prima di partire per il Golfo si sono fatti il loro bravo training in ospedali pubblici come quello di Washington dove i medici normalmente scarseggiano. Sarà un dramma quando questo finirà: cioè quando e se arriverà la pace! Lo stato di guerra nel Golfo è divenuto il motore di una migliore organizzazione dei servizi socio-sanitari, per tutti quei non ricchi che non si possono permettere la clinica privata.
Quanto volontariato si sente all'interno di questa logica? Quanto volontariato è tale solo perché c'è la guerra, il bisogno, il dissesto dei servizi e non perché c'è una giustizia, un diritto da affermare, un modo di essere e di essere insieme che va affermato? Quando il volontario dice che lo stato è inefficiente, quale efficienza vuole affermare attraverso la propria azione? Guardiamo ancora attraverso la finestra e puntiamo l'attenzione sull'evento storico che ha aperto nuove dinamiche tra Est ed Ovest, tra due enormi invasi divenuti comunicanti per il cedimento strutturale delle impalcature e dei sistemi di separatezza e di diversificazione. Anche il volontariato è coinvolto in un processo di incontro e di allargamento delle frontiere. Seminari ed incontri tra espressioni del volontariato orientale e occidentale hanno dato modo di constatare visioni, bisogni, progettualità comuni sulla linea di una partecipazione attiva alle vicende collettive. E' cartina di tornasole, questo rapporto est/ovest, per vedere quanto i nostri movimenti di volontariato hanno maturato la coscienza di ciò che il volontariato nel suo insieme rappresenta nella dinamica storica di un processo di democrazia di base e quanto invece - certamente anche di fronte alla drammaticità delle situazioni - potrà di nuovo prevalere la consapevolezza di ciò che si ha e ciò che si fa come volontari di fronte ai soggetti (individui, come popoli) classificati "deboli". Perché se dovesse prevalere questa ultima logica senza una precisa coscienza politica di sé che apra la strada a nuove forme di convivenza civile, si dovrebbe tristemente concludere che è stato e solo il mercato ad abbattere i muri e non tanto la pace per prima a scavalcarli. Forse a questo punto val proprio la pena di mettersi un poco a sedere sul divano della terza parete. Complessità, appena intraviste, che ci avvolgono, domande di sempre che vanno molto al di là (ma quanto, davvero?) rispetto al nostro raggio di azione, problemi senza soluzione. E dunque seduti sul divano possiamo lasciarci andare ad un discorrere più leggero, per qualcuno forse un po' frivolo.
E prendiamo un po' in esame questa umanità che sembra nel suo agire esprimere due stili assai distinti. Da una parte sta l'uomo chiuso nell'armatura di una azione che deve costantemente produrre risultati e che deve riflettere un' immagine forte di sé. Dall' altra sta l'uomo che agisce in interazione, che scambia volentieri, che riflette una immagine non debole ma coinvolta e capace di contenere positivamente la complessità. Potremmo cedere alla tentazione di attribuire il primo stile ad una supposta "mascolinità'', come il secondo ha senz'altro più di qualcosa di "femminile". Potremmo anche soffermarci sul fatto che - guarda caso - il volontariato è maschile e la pace è femminile: non diciamo forse correntemente che il volontariato si fa (è soggetto) e la pace si desidera (oggetto)? Il discorso non è così frivolo come sembra, ma avendo detto di voler mantenere un tono leggero proviamo semplicemente a scambiare tra loro questi due modi di dire: che ve ne pare di una pace che si fa e di un volontariato che si desidera?
Proviamo ad immaginare gruppi ed associazioni di volontariato che non si organizzano per dimostrare che accanto al male c'e' la bontà ma per condividere le situazioni di violenza (di ogni violenza) per renderle umane tramite la ricerca di giustizia e verità, gruppi addestrati a prevenire lo scatenarsi della violenza nei rapporti individuali e collettivi perché non si muovono contro un nemico, ma insieme verso modi diversi di confrontarsi con il bisogno. Proviamo ad immaginare autoambulanze (quelle del volontariato) con una barella sollevata dall'uguale umanità di razze diverse, un respiratore collegato ad una bombola di accoglienza vicendevole allo stato gassoso (capace cioè di miscelare insieme responsabilità e libertà nella fluidità del vissuto), una sirena spiegata dal canto polifonico di un popolo che vive le proprie armonie nell'urgenza di ogni tempo in cui si può vivere o morire.
E chiediamoci se desideriamo realmente vivere l'arcobaleno delle reciproche disponibilità nei delicati colori della gratuità che fa della solidarietà non un dovere ma un diritto di ognuno. Se desideriamo veramente che il sole sorrida su una umanità che intreccia relazioni partecipate e caloro-samente attive.
Ci possiamo avvicinare a questo punto alla quarta parete e al pianoforte, o se preferite alla fisarmonica o alla chitarra, visto che si parla ormai così con il cuore in mano e con quel calore che un bicchiere di buon vino può dare. La mente può scandagliare i problemi, chiarirli nei loro elementi, avvisarci con logica impietosa delle loro profonde e vaste dimensioni. Il gioco può servire a distrarci, ma la vita non è forse anche un gioco? Un po' di musica, un po' di poesia, prima di lasciare questa nostra stanzetta imbiancata con le aeree sfumature dell'utopia e ritornare in questo salone carico di storia.
Poesia? Certo. Utopia? Senza dubbio.
Ma perché la speranza torni a fiorire è necessario non lasciarsi rinchiudere neppure dalle grandi pareti della storia perché ogni misura che non sia colma e traboccante è condannata comunque alla sterilità.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA dicembre 1990, Dicembre 1990
Luigi Sonnenfeld
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