Abbiamo un amico tipicamente viareggino, e cioè quel carattere pronto al rabbuffo, ruvido e scagliato come una pigna quando la prendi in mano anche se custodisce al suo interno la dolce delicatezza del pinolo. Anima impulsiva, ma saporita di tanto affetto.
Ne abbiamo tanti - che fortuna! - di questi amici che nel silenzio della vita quotidiana sono per noi un prezioso tesoro di umanità.
E ci diceva - questo amico - poco tempo fa, scuotendo la grande testa bianca a mo' di rim-provero, ma sorridendo con gli occhi: «voi siete troppo poco chiedoni... !». E cioè, tanto. per dirla in lingua,: «voi non cercate aiuti, sostegni, quattrini; non bussate alla porta di chi, o per interesse o per togliersi un fastidio, può dare sostanziosi contributi per tutte le cose che tirate avanti. Un po' di misura va bene, ma voi siete esagerati all'opposto!».
Non sappiamo se siamo veramente così. O meglio, sappiamo di non batter cassa, del non spingere per avere contributi comunque sia, ma crediamo che la frase del nostro amico vada interpretata oltre il suo senso più immediato. Non sappiamo cioè dove sia esattamente il confine tra una testimonianza di sobrietà, di rispetto, di povertà e la manifestazione di una pigrizia che esprime la voglia di stare tranquilli, di pilotare personalmente e con personali criteri ed interessi tutto quello di cui ci stiamo occupando, di evitare di compromettersi con gli altri in imprese comuni. Non sappiamo sinceramente se riusciamo ad evitare tutta quella puntigliosa liturgia dell'impegno quotidiano che riempie sì la pagina dell'agenda, ma solo per non dover affrontare i segni di novità e di coinvolgimento che Dio semina nella storia e nel tempo.
E ci dispiacerebbe se le cose stessero veramente così; come se le nostre, ancorché povere, iniziative non si manifestassero come un amichevole invito a dare se stessi in un cammino di umanità.
Certo non possiamo illuderci di essere inattaccabili, oltre che sicuramente dalle paure e dai tremori personali capaci di provocare penosi ripiegamenti, anche da tutta un' aria che si respira intorno e che continua a proporci avvenimenti e discorsi di tutti i colori fino a farci girare la testa e desiderare unicamente un punto fermo comunque sia. E i colori - sia pure assai diversi -, sempre più raramente finiscono per distendersi in arcobaleni sorridenti al futuro, ma al contrario, sempre più si definiscono e si controllano a vicenda nella propria improduttività specificità. Non solo il bianco e il nero fanno emergere reciproche chiusure razziali, ma quest'aria di corporativismo ad oltranza soffia sulle scelte e le decisioni politiche, le rivendicazioni sindacali, le polemiche di quartiere e di condominio, le dichiarazioni dei redditi per la piccola, ma non disprezzabile torta dell' otto per mille, il diritto dell'uomo cacciatore, il verde che più verde non si può...
In quest'aria che si respira si capisce di più perché certe scelte, anche se conseguenti da tem-po, risultano ad un certo punto incomprensibili: in un mondo così frammentato e complesso perché ostinarsi a non dare risalto, a non favorire facili aggregazioni intorno a degli sforzi concreti di bontà che comunque vanno a vantaggio di chi ha bisogno? Perché non chiedere?
Si può sospettare che non tanto la pigrizia o la stanchezza, ma una vera e propria difesa «corporativa» del proprio orticello sia all' origine di questo nostro silenzio.
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Non ce la sentiamo di escludere del tutto questi motivi, ma neppure ci riconosciamo in questa spirale di avvitamento su se stessi.
Ci sembra più giusto esprimere quello che per noi è luce che orienta il faticoso cammino di ogni giorno. Faticoso ed oscuro, a volte, sin quasi a nascondere a noi stessi ciò che stiamo seguendo. Cammino in cui giochiamo pazienza e serena solitudine; dove accettiamo di non vedere bene, ma di affidarci ugualmente perché abbiamo sperimentato essere questa concreta condizione di ricerca.
Il «non chiedere» (e l'assumiamo con pacifica constatazione) ci sembra derivi a noi non solo e non tanto da inquietudini spente, quanto da una condizione di silenzio per poter dire altre parole che, evidentemente, giudichiamo più importanti - decisive - rispetto alle mete cui ci si sforza di convergere.
A volte viene in mente che sia solo ridicola pazzia, una tendenza alla complicazione per lo meno eccentrica, ma non ci rassegniamo ad essere descritti (tantomeno circoscritti) dalle opere che facciamo. Non sono per noi un assoluto né il lavoro, né l'accoglienza, né la presenza pastorale, né la condivisione solidale di idealità umane. Per queste cose noi «non chiediamo», ma «offriamo» spazi di collaborazione, spunti di iniziativa, inquietudini, ricerche.., tutto quello che può costituire motivo per camminare spalla a spalla o anche a distanza considerevole, dove quello che importa è camminare con le proprie gambe e con il proprio cuore. La strada allora può essere veramente comune.
È solo all'interno di questa dimensione aperta e libera di «offerta» che si stabiliscono delle «richieste». Ma esse non derivano innanzitutto da ciò che chiediamo o non chiediamo, ma dalla specificità, dalla natura e dalla storia di ogni singola realtà. Così per la cooperativa C.RE.A. nella quale lavoriamo, 1'A.R.C.A. che si appresta - come Associazione - a crescere la sua presenza nel tessuto della vita della città, lo stesso Campo della Pace la cui nascita è ancora in pieno travaglio, le due parrocchie... Non c'è per nessuna di queste iniziative una convocazione, una «richiesta» di impegno e di partecipazione, di contributo e di interessamento tale da privilegiare alcuni invece di altri; coloro ai quali è chiesto e quelli ai quali sembra che non ci degniamo neppure di concedere un po' di considerazione. È sulla strada aperta della vita concreta che può accadere di incontrarci e di rispondere liberamente insieme alle «richieste» che non derivano da prese di possesso, ma da responsabilità serenamente accolte e condivise. Questo prima di ogni altra cosa! L'incontro, la riunione, la manifestazione anche quella più sentita e più riuscita, non possono sostituire questo primo passo che ognuno compie - vien da dire - in piena autonomia: non perché è stato chiesto, ma perché offerto, donato, nella gratuità. Può succedere allora che per varie ragioni scritte nel quotidiano accadimento, non ci si incontri per un po', ci si perda un po' di vista, prevalga la solitaria attrazione del proprio cammino, il coinvolgersi in altri destini... può essere allora sufficiente quel solo passo (senza che nessuno se ne senta richiesto) perché di nuovo si riscopra di aver comunque camminato assieme.
Non sappiamo se tutto questo può accadere invece quando ci si sente sollecitati solo all'interno di ciò che è stato o non è stato chiesto.
C'è qualcosa, però, che non chiediamo ai nostri amici e alle persone che per diversi motivi si incontrano con noi. Non è semplice esprimere questa nostra richiesta, ma forse perché fino ad ora non abbiamo trovato le parole adatte. Solo il prolungato silenzio, interrotto a tratti, sembra riuscire a trasmettere comunque un messaggio.
Questa nostra vita di piccola, minuscola comunità chiediamo sia rispettata, in questa sua -possiamo dire così? - fragile inutilità.
Sappiamo che tante volte il telefono squilla senza risposta o che mani più o meno timide bus-sano invano alla porta scortecciata della Chiesetta. Ci dispiace sinceramente che questo accada, ma d'altra parte, altrettanto sinceramente bisogna dire che noi non ci sentiamo in colpa. È vero; siamo spesso fuori, ma questo non vuol dire che sentiamo la Chiesetta come un' abitazione anonima e provvisoria. Vetri sporchi, polvere, ragnatele, fiori provati dall'arsione stanno a significare solo una nostra imperdonabile illusione di viver da giovanotti. E poi non è sempre così! A volte ci vestiamo a festa e le luci e i colori della casa sono vivi e bellissimi. Non abbiamo la consapevolezza, né ci sfiora l'idea di vivere in una casa abbandonata.
È la nostra casa. Lo è stata durante vent' anni e continua ad esserlo. Angolo del porto che d'estate si nasconde nel verde dei platani e continua a riservarci teneri momenti di silenzio e a custodire le nostre stanchezze e i nostri sogni.
La abitiamo con il cuore anche se spesso siamo lontani, e così riusciamo a viverla come quat-tro mura che misteriosamente acquistano le dimensioni del mondo.
A volte, risucchiati dalle cose di cui più o meno insensatamente ci carichiamo, sembra di es-sere come assediati se non addirittura sommersi dall'invadenza e dall'urgenza della realtà. E viene voglia di fuggire in un altro luogo che sia protetto e difeso. E le mura della Chiesetta allora sembrano di fragile vetro.
Altre volte ci prende l'insana agitazione di significare qualcosa per gli altri, per la gente, gli amici, la città e allora vorremmo rendere la nostra vita nella Chiesetta pregnante di programmi, presenze, organizzazione. E le sue mura ci sembrano quelle di un fortilizio inavvicinabile.
Per fortuna la piccola campana del campanile a vela lassù sul tetto continua a parlare con voce intima e persuasiva. Parla di pace, di una pace cui non si resiste, ma ci si arrende oltre ogni gratitudine, ogni riconoscimento, ogni possibile e plausibile ragionevolezza.
Una piccola comunità senza che ci sia il capo, senza che ci sia una regola, capace di così grande diversità fin da conciliare gli opposti nei suoi membri, accoglienza di rapporti intessuti nel quotidiano ed ugualmente vissuti durante lunghe separazioni, piccolo gruppo dai confini mai definiti eppure custodito da una lunga sempre nuova sorprendente quotidiana sotterranea vivida storia.
Ricerca silenziosa, libera da esigenze anche se pienamente giustificate di gratificazioni, desiderosa unicamente di misurarsi con quella realtà e quel compimento ultimo dell'esistenza umana che chiamiamo Dio.
Sempre più, durante questi ultimi anni, la Chiesetta è luogo di silenzio. Non dice parole che possano essere udite, non intreccia dialoghi, non cerca interlocutori.
Sono altri i luoghi dell'incontro, della partecipazione entusiasta o critica, della costruzione di rapporti umani, della lotta solidale, dell'impegno. Giusto il campo della pace, proprio qui fuori la porta, la cooperativa e il capannone, la dimensione associativa dell' arca, quella religiosa delle parrocchie...
La Chiesetta rimane segno poco decifrabile forse, ma non equivoco. Segno di una libertà incondizionata, segno di un'umanità che semplicemente è, segno di quella Grazia che rinnova continuamente tutte le cose.
Per noi che nel silenzio la abitiamo, ma anche per chiunque sente di non essere estraneo nella propria solitudine, ma abbracciato da questo antico sogno nuovo.
La Redazione
in Lotta come Amore: LcA luglio 1990, Luglio 1990
Luigi Sonnenfeld
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