(a seguito del precedente)

Jon Sobrino s.j. 29 novembre 1989 (da «Il Regno» n. 2/1990)
«Spero anche che le generazioni future, quando pace e giustizia giungeranno nel paese, si ricordino che, fra coloro che resero possibile l'avvenimento, vi erano anche i miei fratelli gesuiti. Spero che le generazioni future ricordino e apprezzino il loro apporto alla costruzione di una fede e di una chiesa salvadoregna e cristiana, la loro dimostrazione che questi aspetti diversi non si oppongono, ma si rafforzano l'un l'altro e che, in questo modo, per quanto è possibile ai mortali, garantiscano che in El Salvador si trasmette la fede di Gesù. Spero che in futuro i salvadoregni cristiani siano loro riconoscenti perché il paese è giunto alla giustizia ed è cresciuto nella fede.
Il prezzo pagato è stato molto alto, ma non c'è altra via. Mentre oggi si parla di evange-lizzazione delle culture, occorre pensare a una evangelizzazione più profonda: l'evangelizzazione della realtà, che la realtà diventi buona notizia. Per ciò bisogna incarnarsi nella realtà, come ha detto mons. Romero con parole che mettono ancora i brividi: «Mi rallegro, fratelli che in questo paese abbiano assassinato dei sacerdoti... Sarebbe molto triste che in paese dove si sta massacrando orribilmente il popolo non potessimo contare sacerdoti fra le vittime. E segno che la chiesa si è incarnata veramente nei problemi del popolo».
A prima vista crudeli, queste parole sono chiaroveggenti. Senza incarnazione non c'è né fede né evangelizzazione. E in mezzo a un popolo crocifisso non c'è incarnazione senza croce. Quante volte Ignacio Ellacurìa ha detto che lo specifico cristiano è la lotta per sradicare il peccato, combattendolo. Il peccato genera la morte, ma affrontarlo dà credibilità.
Condividendo la croce dei salvadoregni la chiesa si fa salvadoregna e, così, si rende cre-dibile. Se a breve termine questo delitto è una grave perdita, a lungo termine è un grande guadagno. E in costruzione una chiesa veramente cristiana e veramente salvadoregni e i salvadoregni di poter essere veramente cristiani. Che la fede e la giustizia camminino unite per sempre non è un piccolo frutto per il tanto sangue salvadoregno e cristiano sparso in El Salvador.
Infine lasciano un clamore rivolto al mondo intero. Il mondo non vuole ascoltare i clamori, li ignora quando sono clamori di campesinos anonimi; questa volta, però non ha potuto fare a meno di ascoltarli. Il grido denuncia e esige la conversione. «Il sangue è più eloquente delle parole», affermava mons. Romero. Le reazioni a livello mondiale - anche se insufficienti ad arrestare la barbarie - hanno costretto molta gente a pensare. Mi dicono che anche uomini severi del Congresso degli Stati Uniti hanno versato lacrime. E una buona notizia, un vangelo. Su questa terra di peccato e priva di senso si può vivere da esseri umani e da cristiani.
In questa corrente si può partecipare alla storia onesta, portatrice di speranza e impegnata che incoraggia a camminare vivendo, lavorando, credendo. Ha i suoi costi, però offre senso e salvezza.
Credo sia questa l'eredità che i nuovi martiri ci lasciano e spero che ci accompagni nella storia. Bisogna camminare nella storia con umiltà, come ci dice il profeta Michea, fra tribolazioni e oscurità e bisogna camminare con Dio. Dove attingere la forza per continuare a camminare oggi, in El Salvador?
Da questi fratelli che hanno raggiunto il traguardo anche se la loro vita è finita in croce. E così, perché, in ultima analisi, la loro vita è stata una vita nell'amore e dove l'amore si fa presente nel mondo lì si rende presente anche la speranza. Tutto è contro la speranza, ma dove c'è un amore più grande la speranza cresce e si mantiene. E quando anche la speranza pare paralizzata si incontrano i volti dei poveri, nei quali è ben presente il Dio nascosto che ci chiede di continuare la nostra strada. Perché continuare a camminare nell' oscurità? - è la domanda che si pongono molti. Perché questo cammino ci è reso più facile dai poveri e dai martiri e lo dobbiamo ai poveri e ai martiri.
I miei sei fratelli gesuiti ora riposano nella cappella di mons. Romero, protetti da un suo grande ritratto.
Si saranno abbracciati, assieme a tanti altri, nella pace e nella gioia. Ci auguriamo che il Padre celeste conceda, presto, la stessa pace e la stessa gioia a tutto il popolo salvadoregno.
Che Ignacio Ellacurìa, Segundo Montes, Ignacio Martìn Barò, Amando Lopèz, Juàn Ramòn Moreno, Joaquìn Lòpez y Lopèz, compagni di Gesù riposino in pace. Che Elba e Celina, figlie carissime di Dio, riposino in pace.
Che la loro pace trasmetta a noi che siamo vivi la speranza e che non ci lascino riposare in pace.


in Lotta come Amore: LcA marzo 1990, Marzo 1990

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