L'impresa del capannone

Da poco più di tre mesi è cresciuta la popolazione del nostro capannone di via Virgilio. Tace quasi del tutto il canto del martello sul ferro arroventato nella forgia, ma in compenso risuonano le voci di una decina tra ragazzi e ragazze sui 15 anni a ringiovanire l'ambiente.
Ragazzi appena usciti dalla scuola dell'obbligo, segnati da handicap più o meno gravi, per un'esperienza di passaggio tra la scuola e il lavoro. Almeno per quelli meno in difficoltà, sempre che fortuna e leggi di sostegno consentano loro un inserimento del resto sempre più difficile nella crescente e preoccupante situazione della disoccupazione giovanile.
Non è davvero difficile stare con loro anche se a volte si comportano con la leggerezza dell'irresponsabilità e ricevono occhiate severe da parte dei "vecchi" della ceramica e dell'impagliatura sedie. Loro sì che ormai lavorano con autentica coscienza operaia e non possono non sentire il fastidio di ragazzini intorno che vogliono sempre scherzare. Uno di loro, ogni tanto mi batte la mano sulla spalla e scuotendo la testa in segno di commiserazione dice: "ma cosa fanno quei mammalucchi!"
Comunque la "Famiglia" cresce portando, è vero, nuovi problemi, ma anche una ventata di novità che aiuta a sentirsi vivi, a fare programmi, a creare qualcosa di più e qualcosa di meglio nella nostra "Disorganizzazione".

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Certo aumenta la dimensione "assistenziale" della nostra piccola azienda e questo fatto preoccupa un poco, specie se confrontato con il progressivo impoverirsi della dimensione produttiva, di impresa.
È vero, non siamo mai stati votati al lavoro alla morte. Ma se ci guardiamo indietro possiamo vedere tutta una serie di realizzazioni uscite fuori da denaro guadagnato giorno per giorno, cercando di non tirarci indietro di fronte a nessun lavoro, anche quelli meno gratificanti, quelli commissionati da gente che credeva di comprarci con un'elemosina. Di poco ci siamo sempre accontentati, ma l'elemosina non l'abbiamo mai accettata da nessuno.
Ora le convenzioni con la U.S.L. (a parte i cronici ritardi nei pagamenti) hanno preso il sopravvento nella nostra economia di sopravvivenza. E questo ci mette in un certo senso di disagio. Abbiamo sempre tenuto ad una nostra dimensione "privata", ad una autonomia che deve trovare il suo riscontro anche nel fatto economico. Non abbiamo mai pensato alla nostra iniziativa come alternativa a quella pubblica, come in una contrapposizione legata alla sfiducia nella azione politica. Abbiamo semplicemente voluto portare nella dimensione pubblica la piena dignità di una partecipazione attiva, autonoma, e cioè non dipendente per la sopravvivenza dal denaro pubblico o dal favore dei pubblici poteri. Una autonomia che ci ha permesso di giocare la nostra responsabilità nella libertà di pensiero, di atteggiamento, di giudizio.
Scomodi tantissime volte, ma sempre coinvolti decisamente nelle problematiche che abbiamo deciso di accogliere. Fino a determinare in maniera decisiva l'orientamento della politica istituzionale locale nei confronti delle problematiche dell'handicap con le sperimentazioni e le lotte portate avanti da diversi anni.
Oggi rischiamo di perderla questa autonomia - e quindi questa libertà - se non riusciamo a crescere e solidificare quell'inventiva che ci ha caratterizzato all'inizio e che ancora conserviamo attiva nell'atteggiamento e nel modo in cui affrontiamo il lavoro.

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È questo, ed in modo sostanzioso, problema economico, di forze, di produttività, di mercato. È legato alle nostre motivazioni, ai nostri bisogni, alle nostre disponibilità e scelte. Ma soprattutto è "impresa" di idee, di ricerche, di realizzazioni tirate fuori dalle mani, dalla mente e dal cuore come dice un vecchio slogan. È vitalità che nel nostro caso abbisogna in modo particolare perché l'handicap molto spesso, oltre a deficienza, difficoltà, ritardo fisico o psichico, è soprattutto sottolineatura del limite, abrasione della fantasia, distorsione della creatività, annebbiamento della personalità, incentivo al gesto ripetitivo che rassicura nei confronti del potenziale disgregativo del "diverso". Per la pressione sociale che intorno all'handicap si realizza e produce preoccupazione e cioè esagerazione di paura o di affetto, che è poi la stessa difesa di fronte a tutto ciò che rompendo gli schemi della normalità si manifesta come imprevedibile.
Anche per questo sembra necessario che coloro che lavorano nel mondo dell'handicap (... che strano: mi accorgo di parlare di handicap per indicare un contesto, ma non mi viene da scrivere "handicappato", proprio come mi sarebbe difficile dire dei miei amici etiopi che sono "negri"...) non siamo persone troppo preoccupate di ritagliare la propria normalità in un contesto statico, ma gente capace di offrire e di ricevere le continue provocazioni che lo spirito di "impresa" produce. Impresa umana, sociale ed economica.
Produttività di beni materiali, di servizi, di idee, di una cultura nuova, solidale, umana. Non la limatura degli spigolo vivi dei crocevia della condizione umana per ottundere paciosamenre il cammino delle coscienze (... se non ci pensate voi che siete preti ...), ma la capacità di rimettersi in discussione senza angosciosi ricami su di "sé", nel confronto aperto anche con i problemi "impossibili" del nostro vivere.
Altrimenti c'è il rischio di fare l'abitudine a tutto ed è cosa molto triste normalizzare le diversità e cioè non prenderle sul serio fino a proporre solo limitazione per non lasciarsi mettere in questione. Anche se è difficile armonizzare le diversità in un percorso comune. Difficile? Forse sarebbe meglio dire impossibile fino all'utopia! Ma è proprio per questo che occorre agitarsi, trafficare, provare, sperimentare, inventare, rischiare fin quasi a bluffare con se stessi per non arrendersi di fronte ai limiti spesso carichi all'eccesso del peso di tutta una storia umana e di una esperienza che parla il linguaggio opposto e che etichetta come "impresa" tutto ciò che è assegnabile a merito individuale o di gruppo per forza, abilità coraggio, fortuna, ecc. ecc. sempre misurabile sul distacco quantitativo tra coloro che sono riusciti ad "imprendere" e coloro che sono rimasti al palo.
Nel nostro caso, come in quello di tutti coloro la cui misura è a respiro di umanità, l'impresa non consiste nell' arrivare a determinati traguardi, ma nel mantenere viva una capacità di levitazione perché un sogno possa illuminare la vita e le tensioni di questa nostra storia umana. Si parla di handicap in un mondo in cui tante sono le occasioni di fasulla onnipotenza per poter prendere sul serio il limite ed insieme il suo concreto supera mento. Si parla di diversità in un contesto in cui drammatico pare il confronto per l'inasprirsi dei conflitti che sulle diversità sono alimentati. E angoscioso appare l'incrociarsi confuso di lotte per la liberazione, di corporativismi regionali, di semplici aggiustamenti di sfere d'influenza. Come la rigidità convenzionale in un contesto di rapporti per contro sempre più fluidi che segnano spesso la sterilità di rapporti uomo-donna, giovani-anziani. Si parla di inserimento nel mondo del lavoro in un contesto drammatico di disoccupazione, in un modello sociale ed economico che teorizza l'inevitabile formazione di un terzo di popolazione "povera" per dare l'opportunità ai due terzi di essere competitivi nella società dei consumi (come consumatori s'intende). E questo come "impresa" da realizzare, rendendo merito alla dirigenza che sarà capace di ridurre ad un solo terzo gli italiani destinati ad arrivare solo alle briciole della tavola imbandita dei beni e dei servizi che la "normalità" acquisirà come suo diritto.
L"'impresa" è opporsi a questo vento che spira forte e deciso nella mentalità di tanti, oggi.
L'''impresa'' è realizzare spezzoni di modelli diversi seminando storie ispirate a ben altra idealità. Impresa che. non può abbandonarsi nelle comode braccia di rapporti convenzionali, di assistenza programmata, di gratificazioni per opere buone. Impresa è non rassegnarsi mai alla sopravvivenza, in nessun caso. Anche se la nostra associazione si chiama A.R.CA. noi non vogliamo essere, non vorremmo mai essere, dei sopravvissuti. Solo gente che porta nel cuore un sogno e lotta nella vita sognando la multiforme diversità dei colori dell' arcobaleno ed insieme il chiudersi perfetto del suo arco all'orizzonte "impossibile" dove si congiunge cielo e terra.


Luigi


in Lotta come Amore: LcA luglio 1988, Luglio 1988

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