La lunga marcia della nonviolenza

Non ricordo nessuna opera che Gandhi abbia inaugurato, però ricordo bene altri suoi gesti come il lungo cammino verso il mare quando aveva già 61 anni: 24 giorni, 18 chilometri al giorno per l'abolizione della legge del sale, che proibiva agli indù di ottenere qualsiasi sale che non fosse venduto dal monopolio governativo inglese.
Gesto minimo, debole, che non sarebbe stato commemorato da nessun monumento: andare fino alla spiaggia e lì trasgredire la volontà del dominatore; prendere in mano il sale che il mare e il sole avevano lasciato sulla pietra. Lui avrebbe potuto andare a dorso di animale o in treno. Sarebbe stato più veloce. I politici hanno terrore della lentezza. È per questo che tentano di darsi attributi divini di onnipresenza: adesso sono qui però in un batter di ciglia sono là... Però Ghandi pensava diversamente. Sapeva che la vita cresce lentamente. Ad una maternità non si può far fretta. Lui non voleva inaugurare niente, voleva guadagnare un popolo. Il popolo è qualche cosa che cresce dal di dentro. Era necessario che la marcia andasse a rilento perché le persone camminassero al suo fianco. Nella misura in cui avanzava lentamente verso il mare, nell'immaginario del non-popolo andava crescendo qualche cosa di nuovo; un senso di dignità, un desiderio di libertà. E il non-popolo andava convertendosi in popolo. La larva si trasforma in farfalla.
È molto più facile inaugurare un'opera che inaugurare un popolo.
Le inaugurazioni delle opere sono sempre festive, quella di un popolo è dolorosa come un parto, che non poche volte termina con la morte.
Chi vuole avere un figlio corre il rischio di soffrire e morire. Come successe a Ghandi.
Non ricordo neanche che Martin Luther King abbia inaugurato opere. Però mi ricordo molto bene il suo volto sereno, malgrado l'odio carico di minaccia di morte da parte dei bianchi. Lui marciava con le mani vuote, mani donate, indicando un cammino. Mi ricordo il suo memorabile discorso, nel quale già prevedeva la fine, una sorta di testamento con cui raccontava al suo popolo il sogno che lo animava. E come in un poema, il ritornello si ripeteva: «Io ho un sogno... »: era il sogno di un popolo che si formava, di un larva che si trasformava in farfalla. Parole magiche che evocavano speranze dimenticate e utopie non ancora pensate».
Ruben Alves (da «SIAL» n. 13/14 1989)


in Lotta come Amore: LcA dicembre 1989, Dicembre 1989

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