Quando la misura è piena

In questo nostro tempo di talpe e di ruminanti, gli spiriti più illuminati e lungimiranti - da Schweitzer a Gandhi, da Russel a M.L. King, a Madre Teresa di Calcutta - hanno ostinatamente cercato di aprirci gli occhi e il cuore; ma la crosta dell'interesse e della pigrizia mentale è sempre stata troppo dura.
Oggi, però, la forza stessa delle cose ci fa toccare con mano che la vera mina vagante di questo nostro navigare a vista, il problema cruciale dalla cui soluzione o mancata soluzione dipenderanno in un futuro oramai prossimo la pace o la guerra, la fioritura o la morte del pianeta non è, o non è più, quello del confronto-scontro tra i diversi modelli ideologici o di sviluppo, bensì quello del divario devastante ed una continua crescita tra un'area dello sviluppo ed un'area del sottosvilup-po, tra nord e sud.
Ancora nell'anno di grazia 1989 il sei per cento della popolazione mondiale consuma oltre il cinquanta per cento delle risorse complessive; il sessanta per cento vive nelle baracche; il settanta per cento è analfabeta.
.Come sfuggire all'oggettivo atto di accusa rappresentato da cifre così eloquenti? Come sottrarsi alla sensazione - ma è piuttosto una realtà fondata su incontrovertibili dati di fatto - che i due fenomeni, quello dell'arricchimento dei ricchi e quello dell'impoverimento dei poveri, siano tra loro speculari, ovvero si alimentino a vicenda?
Per secoli il nord, si fa per dire civilizzato, si è nutrito del saccheggio indiscriminato e perverso delle risorse umane e materiali del sud; ed il saccheggio, magari in forme meno esplicite ma non per questo meno violente e generalizzate, continua come è provato, tra l'altro, dal risorgere del razzismo che del vecchio come del nuovo colonialismo ha sempre costituito la copertura ideologica.
Un saccheggio, dicevamo, indiscriminato, perché non guidato da altra logica che non sia quella del consumo e del profitto immediato la quale ha come effetto non secondario la trasformazione del paradiso terrestre in una trappola irrespirabile e invivibile ma anche perverso perché mentre, da un lato, innesca tra razziatori e vittime, tra uomo e ambiente la spirale selvaggia della paura e della rivalsa, dall'altro insinua tra le stesse file dei presunti beneficiari il senso di colpa, la sazietà, l'istinto della precarietà, dell'evasione, della fuga. Se tutto ciò non basta a turbare la nostra coscienza dovrebbe quanto meno bastare a mettere in allarme il nostro spirito di autoconservazione. Non è necessario essere profeti o futurologi per prevedere che se non saranno la giustizia e la saggezza a trionfare, sarà l'enormità stessa dello squilibrio a provocare un ribaltamento che, in questo caso, non potrà non essere distruttivo.
Al problema dello sterminio per fame, dello sfruttamento e dell'emarginazione di due terzi dell'umanità sono possibili, in linea di principio, approcci molto diversificati: da quello paternalista e falsamente pietista che pretende di curare i sintomi del male senza aggredirne le cause, a quello mercantile ed ottusamente difensivistico disposto a concedere il minimo solo per evitare il peggio, a quello più propriamente etico e politico che si fa carico dei termini reali del problema che è, essenzialmente, problema di riequilibrio complessivo e di risarcimento.
C'è, tuttavia, almeno un atteggiamento che non possiamo più permetterci ed è quello dell'ignoranza che sarebbe ignoranza colpevole, dell'indifferenza che sarebbe indifferenza suicida.
Credo anche e soprattutto per i cristiani, sia come individui nel privato che come collettività istituzionale e come chiesa, la scelta sia ormai improcrastinabile.


Alfonso


in Lotta come Amore: LcA dicembre 1989, Dicembre 1989

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