Diverse volte e in tempi diversi, queste paginette hanno ospitato riflessioni sulla solitudine.
Quasi mai ne abbiamo parlato in senso totalmente negativo, come se l'esperienza della solitudine, in qualche modo fosse parte integrante della ricerca di una nuova e diversa umanità. Eppure non è certamente sfuggito a noi - lungo un arco di oltre vent'anni di vita comunitaria - il volto terribile e lacerante della solitudine intesa come forzata condizione di prigionia al di là di ogni contatto umano, di ogni piccolo gesto di comprensione. La impossibilità di comunicare ansie e giustificazioni della vita quotidiana fino a mendicare un sorriso, una parola, uno sguardo, proprio per non impazzire.
La paura spesso genera solitudine. Una paura invisibile e silenziosa che prende alla gola e impedisce - a poco a poco - quel respiro di piccole, quotidiane relazioni che sono come il pane per lo spirito. Una troppo attenta e timorosa parsimonia nei rapporti con gli altri ed una eccessiva pratica di quelle reazioni stupidamente sdegnose cui anche il sale dell'amarezza non riesce a dare sapore.
Ed è la perdita di una autonomia (fosse solo una semplice vivacità affettiva o una silenziosa, benevola accoglienza degli altri) sottile come la rete di riferimenti e di significati che la sostiene. Di qui il rifugiarsi negli affetti doverosi della familiarità e della abitudine che, se vengono a mancare, disvelano il pozzo senza fondo della solitudine.
Solitudine fatta bozzolo; da cui mai voleranno le ali leggere della serenità.
Ma la paura combina altri scherzi. Invece di una solitudine che si ripiega su se stessa, a volte provoca un processo di aggressività, di ricerca spasmodica del tutto o niente, di incapricciamento testardo ed assoluto. Allora si è soli perché si vuole quello che non c'è, si pretende ciò che può essere solo dono, si contratta ciò che è fuori di ogni mercato. Si è soli perché l'«oggetto» della pretesa comunione è, a sua volta, «soggetto» di altre storie, relazioni dinamiche.
L'umanità è abbondata di questi monumenti alla solitudine di chi non si sente amato e non si lascia andare nella vita con leggerezza agli eventi e non emana segnali di serena e libera disponibilità all'incontro.
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Comunque sia, la solitudine che conduce alla rassegnazione e al ripiegamento su di sé e quella che porta all'isolamento perché si batte la testa contro il muro della impossibilità di esigere ciò che è solo gratuità, tutte e due le forme e quante altre racchiudono il volto freddo della solitudine, manifestano il dramma di una dimensione umana carente, scissa e divisa in sé.
La solitudine come la malattia e la morte, non è accettabile in sé. Soprattutto quando essa è, come in molti casi, il risultato di una vita sociale incapace di produrre le condizioni di rapporti gratuiti e gratificanti. E la paura che porta alla solitudine è cresciuta dalla complessità del vivere di oggi, dalla estraneazione da qualsiasi momento decisionale, dalla sensazione continuamente convalidata di essere una nullità nelle mani di altri, sconosciuti, senza volto come il cieco destino.
Anche la religione (così come viene usualmente insegnata e praticata) non aiuta molto a rendersi conto delle trappole di un vivere che ci sbriciola e ci divide; ci scompone come tessere che non si ritrovano mai nella unità di un mosaico. La chiesa cerca di proporre un disegno, ma, troppe volte, esso non tiene conto di come ciascuno di noi è fatto.
E, molto spesso, ci costringe - come gli altri centri di potere - a snaturare noi stessi per poter collimare con gli altri e spegnere la solitudine bruciante nell'anonimo gregariato.
Non è possibile, infatti, appellarsi in modo serio e credibile ad una coscienza che non viene mai chiamata in campo se non per scelte predeterminate. Una coscienza raramente costretta (o forse meglio: finalmente esaltata nella sua dignità) a misurarsi con i problemi concreti, a render conto puntualmente, ad acquisire fiducia ed insieme consapevolezza del limite della propria unicità.
Ma dov'è questo prendersi sul serio e non ignorarsi o rispettarsi formalmente solo perché ci si considera al sicuro sull'altra sponda?
Dov'è questo amore che per essere autentico amore che vince la solitudine, ha bisogno di lot-tare per non perdersi e non divenire insipido e ripetitivo ritornello?
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È necessario fare i conti con la solitudine, così come non possiamo illuderci di rimuovere la malattia e la morte. Esse fanno parte della cornice, e assai più della cornice della vita che stiamo vivendo. Esse non ci appartengono, ma sono nella nostra vita. Ed è necessario per lottarci contro, lottarci dentro.
Assumere su di se la propria misura di solitudine, come di malattia e di morte, può far parte del bagaglio di chi ha coscienza della realtà e senso della giustizia. Ma non aiuta ad uscire fuori dalla loro tremenda costrizione.
Ma assumere su di sé per lottare e schiodare le inevitabilità e il senso di fatalità che emana da chi sembra il più forte: questo può davvero significare una novità, un cambiamento, una trasformazione, una rivoluzione.
E la solitudine può essere un terreno di lotta.
Chi ne vince la paura, non è perché è più forte o fortunato, ma solo perché ne ha una conoscenza reale e concreta e non sfugge scosso da tremiti incontrollati e incontrollabili.
E vincere la paura vuol dire appunto non accettare che sia la solitudine a dettare le condizioni di rapporto tra gli uomini. Essa c'è - d'accordo -; ma non domina. Essa c'è, ma la sua morsa non riesce a chiudere completamente la finestra della mia comunicazione con le cose, il mondo, l'umanità, l'universo. Di essa accetto di vivere la misura quotidiana per scalzare via la pietra che opprime l'amore e lo obbliga a voler essere ricambiato, riconosciuto, ripagato.
La solitudine diviene il terreno dove può fruttificare la gratuità dell'amore.
Solitudine, tu sei terribile.
Erodi la mia dimensione come acido velenoso
e mi spaventi a morte.
Limi ogni giorno la mia individualità
e mi consegni, stanco e confuso, nelle braccia della massa.
Mi privi del sale della mia coscienza
per alienarmi nello stucchevole dolciume dello stare insieme, non importa come.
Di te ho paura.
La sana paura che richiama la saggezza
e non il folle timore che apre la porta alla tua vittoria.
È allora che accetto di lottare
perché ho misurato le forze.
So che posso farcela
se non sono così sciocco da crederti un fantasma.
Mi abbandono alla fluidità.
Le mie dimensioni non sono più rigide: cambiano continuamente.
Tu non puoi più portarmele via per confondermi ed annullarmi.
In esse ritrovo, continuamente donata, la mia identità.
Mi lascio sovrabbondare dalla vita.
I miei contorni trovano rispondenze,
combaciano con altre piccole tessere di un mosaico quotidiano.
Le sue sfumature acquistano senso; i suoi colori, armonia.
Sorpreso, l'amore non chiede
e scopre la sua libertà.
Non muore, ma vive - finalmente - di sé.
Come la croce,
la solitudine fiorisce incontro e vita e comunione risorta.
La Redazione
in Lotta come Amore: LcA dicembre 1989, Dicembre 1989
Luigi Sonnenfeld
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