Tutti quelli che hanno avuto la ventura di incontrare don Sirio sulla propria strada, interlocutori occasionali, amici fedeli e avversari irriducibili (avversari, perché la connotazione di nemico non è compatibile in alcun modo con Sirio e la sua vicenda umana), riconoscevano la ragione più immediata del suo fascino inquietante nell'estrema ricchezza e nell'apparente contraddittorietà del suo spirito e del suo approccio esistenziale.
In lui, dominato dal senso di mistero che va oltre il tempo eppure fervidamente radicato nel presente, l'incanto del deserto e il richiamo della folla, il silenzio come condizione di ascolto e la magia della parola, le convinzioni che vengono da lontano e l'urgenza delle verifiche, la capacità di non misurare i risultati senza mai perdere di vista l'obiettivo, erano momenti diversi e magari opposti di una stessa testimonianza, di un'unica cifra di vita, sempre sul filo del miracolo e del paradosso.
Per lui l'idea o l'ideale non fu mai alibi per una diversione od una diserzione dalla realtà, ma, semmai, movente e direttrice per riviverla, inverarla, trasformarla. Del resto, anche in un tempo come il nostro in cui la reificazione forsennata sembrerebbe suggerire come sole alternative possibili la regressione o la fuga, questa è la vera forza dell'utopia che non può scadere a mero esercizio autoconsolatorio: essa si fa seme che dalla terra nella terra germoglia, progetto finalizzato che si oggettiva nel fare e nel fatto.
Nel ricordarlo è necessario difendersi da alcune tentazioni.
Tutto questo è già stato detto e non metterebbe conto ripeterlo se, nel tentativo di scavare più a fondo, non dovessimo, preventivamente, difenderci da talune tentazioni, tanto più pericolose quanto più accattivanti.
La prima, di tipo agiografico, è quella di ridurre, intenzionalmente, o no, Sirio, ad un innocuo oggetto celebrativo, trasferendo ad una dimensione puramente evocativa, dunque essenzialmente improduttiva, la sua carica essenzialmente problematica. Ora io credo che guardare a Sirio come ad un prodigio in sé sacralizzato e conchiuso, come ad un modello da imitare in modo passivo, significherebbe sublimarlo e congelarlo in una pala d'altare o in un monumento alla memoria. Ciò equivarrebbe a tradire il significato più profondo del suo insegnamento che fu sempre di farsi carico delle proprie scelte in prima persona e con assunzione piena di responsabilità. Sarebbe rimuovere la sua attualità e la sua provocazione: farlo morire una seconda volta e per sempre. Quello della imbalsamazione retorica e rituale sarebbe il peggior servizio che potremmo fare a Sirio e a noi stessi che l'avevamo compagno e maestro, portato dalla sua stessa intransigenza morale e di pensiero a rimettersi continuamente in discussione. I veri santi, così dell'umanità come della chiesa sono quelli che non si lasciano imprigionare in una giaculatoria, ma diventano lievito e tribolo delle coscienze.
La seconda tentazione da combattere è quella, intrinsecamente intellettualistica, di cercare le risposte di Sirio e su Sirio lungo gli impervi itinerari della dialettica astratta, come se l'antinomia della vita e della morte, del temporale e dell'eterno, della paura ragionata e della speranza impossibile eppure vincente, potesse essere assunta in teorema da smontare e da rimontare. Il fatto è che se l'uomo, come improbabile cavia da laboratorio, può venir sezionato fino a trasmutarsi in una categoria ideologica, l'umanità, come spaccato storico, vissuto di cui Sirio era innamorato, può diventare soltanto oggetto di amore, cioè oggetto di identificazione secondo la metafora fascinosa e, per chi crede, secondo il mistero sconvolgente del Dio che si fa uomo.
Ed un'ultima tentazione rimane da esorcizzare, la più intrigante perché la più naturalmente funzionale al nostro istintivo bisogno di relativizzare l'assoluto. La tentazione di sottovalutare in una malintesa chiave laicista, il fattore di trascendenza che in Sirio fu sempre sorgente primaria di energie e di ispirazione, il fattore di trascendenza che rende produttivo il dubbio, salutare l'errore, e riscatta il calcolo delle probabilità nella donazione senza contropartita. L'impegno di Sirio al servizio della verità e della giustizia, - e non ultima della bellezza come criterio di giudizio per l'una e per l'altra -, nasceva, infatti, come atto di fede. Dunque come abbandono fiducioso, e al tempo stesso attivo, nel disegno misterioso eppure trasparente che è dovere di ciascuno concorrere a realizzare. Senza questa giustificazione superiore tutta la gioiosa fatica di Sirio .perderebbe molta della sua originalità; il suo imperativo a non arrendersi e a ricominciare, anche quando Dio sembra lontano e distratto, perderebbe molta della sua contagiosa capacità d'impatto.
Ciò che in definitiva voglio dire è che la lezione di Sirio, scritta, pensata e vissuta sempre senza rete, può essere accettata o rifiutata: non può essere aggirata per via di perifrasi, coartata in schemi che non le si addicono, impoverita in nome della pigrizia e delle scorciatoie.
Innocenza sapiente di chi, anche nella notte più oscura, non dubita che l'aurora sorgerà.
Sgombrato il discorso dalle semplificazioni mistificanti, è forse possibile azzardare, di quella lezione, una lettura d'insieme e, soprattutto, in positivo.
Ho conosciuto don Sirio relativamente tardi, ai tempi del presidio antinucleare di Montalto. Naturalmente, come chiunque in città, ne avevo sentito parlare anche prima, volta a volta con ammirazione, con scandalo o con sarcasmo: mai con sufficienza. Il personaggio, per la sua prorompente vitalità dove l'eccesso era la norma, per il tagliente disprezzo per il banale e l'ovvio, non si prestava alle mezze misure o alle concessioni. Ma l'incontro con lui fu ugualmente uno choc.
Da allora, e durante tutti gli anni in cui siamo stati amici, l'immediatezza dell'accoglienza, la totalità dell' offerta, il fiammeggiante spirito profetico di Sirio non hanno mai cessato di incantarmi e di esasperarmi. Devo dire, tuttavia, che il primo aspetto della sua personalità a conquistarmi fu la suprema innocenza di quest'uomo tormentato e tormentatore. E non era l'innocenza sprovveduta e imbelle di chi non guarda perché non vuole vedere; ma quella sapiente di chi, anche nella notte più oscura, non dubita che l'aurora sorgerà. O, meglio, di chi, al di là del male e della follia, avverte con assoluta certezza l'esistenza di un disegno provvidenziale che, criticamente assunto, tutto illumina e rende sopportabile, anche se non accettabile.
Era questo respiro più disteso e più libero che gli consentivano, proprio quando la battaglia si faceva più dura, o l'amarezza per la sordità minacciava la progressione dello sforzo, di ritagliarsi improvvise, vivificanti oasi di raccoglimento e di poesia che, insieme all'incrollabile fede nella giustezza della causa, gli permettevano di fronteggiare gli eventi senza lasciarsene sommergere.
In questi momenti preziosi e non gratuiti, ma organici alla sua corsa ad ostacoli, Sirio sapeva accostarsi alle cose ed alle persone con la tenerezza dei bambini o con la vertigine intuitiva dei poeti. Penso a certe pagine più intime del suo teatro o dei suoi libri, o ai nostri ultimi incontri sulla terrazza della Chiesetta del Porto, quando mi parlava della morte ormai vicina come di un' amica fidata o come del ritorno del fiume al mare. Tutto questo senza nessun margine decadente, senza nessuna no-stalgia «intimista», ma nella serena consapevolezza del giusto armonizzarsi delle parti nel tutto.
Cultura della pace, cultura della coralità.
Già, perché per Sirio i fatti quanto più apparentemente refrattari alla luce e lontani dalla possibilità di perdono (mai pietistica indulgenza), tanto più diventavano materia di riflessione, o, piuttosto, di meditazione, non importa se segreta o ad alta voce, magari ad altissima voce «fino a rompere l'anima e i timpani». E la meditazione cercava il suo sbocco e la sua verifica nell' azione. Azione sia mirata, perché non dettata dalle circostanze ma dalla volontà di padroneggiarle, che corale, perché a dispetto della tempra di protagonista Sirio respinse sempre come indegno e paralizzante ogni prurito individualistico.
Se è vero che, oggi più che mai, la violenza nasce dalla chiusura, dalla ristrettezza mentale e morale, non sorprende che per un combattente per la pace come Sirio, la cultura della pace fosse innanzitutto cultura della partecipazione, cioè dell' apertura, o, come si diceva, della coralità. Ed ancora, in un' epoca in cui il cavernicolo postindustriale, braccato dalla massificazione e incapace di tenersi compagnia, tende a consumare, ad ammazzare il tempo, piuttosto che a viverlo, non sorprende che per Sirio, cultore dei valori dell' essere, il tempo fosse un dono prezioso da far fiorire e fruttificare.
Ecco come, sul terreno della responsabilità collettiva e della storicità del tempo, Sirio poteva diventare un accusatore ed un giudice implacabile che chiedeva il massimo da sè, e dagli altri, non permettendo a nessuno di chiamarsi fuori, di dichiararsi neutrale vuoi con l'alibi del privato che con quello dell' anonimato del mucchio.
Infinitamente paziente di fronte alle grigie resistenze del quotidiano, egli diventa divina-mente impaziente di fronte ai grandi nodi dell'esistenza e della storia, irrigidendosi via via che le contraddizioni si facevano più laceranti, richiedendo non il bulino, ma la scure. L'opulenza costruita sulla miseria, la sazietà nutrita sulla fame, la falsa sicurezza che nasce dal negare la disperazione, il cinismo grondante di luoghi comuni e di buone intenzioni, trasformavano Sirio, per vocazione e per scelta tollerante, in una furia scatenata.
Allora i dubbi e i 'distinguo' lasciavano il posto alle certezze tanto più ferme quanto più non derivavano dalla letteratura o dalla filosofia da caffè, ma da una scelta di campo prioritaria e irrevocabile. Quella compiuta quando, sulla via che da Gerico scende a Gerusalemme, aveva identificato, una volta per tutte, il suo prossimo nel figlio dell'uomo calpestato e dimenticato che sale ogni giorno con Cristo sulla croce.
Profezia di Dio e del popolo
L'eterno e il temporale; Dio e l'umanità: due facce, due poli di un'unica scommessa. E, come Dio non si trova nei trattati di teologia, l'umanità non si trova in quelli di sociologia, essendo l'uno e l'altra oggetto di una folgorazione e, al contempo, frutto di una scoperta, di una conquista continua.
Il Dio di Sirio non ha mai messo casa in una cattedrale, né ha parlato con voce di tuono: è un Dio povero e probabilmente di pelle scura che si trascina nel sudore e nella polvere insieme alla moltitudine di tutti coloro che sono stati espropriati dell' oggi, ed ai quali, per diritto, appartiene il domani. Perciò l'amore per Dio, o, che è lo stesso, per l'umanità che fa notizia solo quando viene crocifissa, non si nutre di lacrime e di sospiri, ma si fa lotta - lotta come amore -, per ridurre, alla maniera del maglio con il ferro e con il fuoco, la materia informe ad opera d'arte, cioè, di nuovo, ad immagine di Dio.
Dunque non l'arroganza della ragione che scambia l'essere con il dover essere, nè il pa-ternalismo di chi stempera i termini del contrasto per non essere costretto a prender parte e partito. E neppure il moralismo di chi non vuole sporcarsi le mani, ma un rischioso sforzo di incarnazione nelle cose per umanizzarle o divinizzarle dall'interno.
Per questo Sirio non predicava alla gente, ma era la voce della gente convinto, com'era, che nella gente - nel popolo di Dio, al di sopra delle chiese e delle ideologie, non come annullamento ma come sublimazione dell'individuo nel collettivo -, stesse la fonte della forza e della verità. Perciò egli volle vivere tutta la sua vita tra i suoi simili, compagno tra compagni, preteoperaio che ricavava dal vangelo e dalla esperienza della fatica e delle solidarietà quei tratti che in lui abbiamo amato ed insieme, a volte, ci hanno fatto disperare: il candore francescano e la determinazione del rivoluzionario, la prontezza della risata e l'asprezza della denuncia, il senso della concretezza e la capacità di sognare in grande.
Tra questi estremi, tutti da esplorare e sviluppare sulla nostra pelle se vogliamo rimanere nella storia, va cercata l'eredità che Sirio consegna ad un tempo che tanto più ha paura dei profeti quanto più ne ha bisogno.
Alfonso Raffaelli
in Lotta come Amore: LcA settembre 1989, Settembre 1989
Luigi Sonnenfeld
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