La posta di Fratel Arturo

Cari Amici d'Italia:
alla domanda rituale, quale impressione porto con me dall'ultimo viaggio in Italia, ho già pronta la risposta: ho fatto una profonda, inattesa esperienza della morte. Inattesa perché, nella morte di amici che sono molta parte della mia vita, è come se avessi fatto le prove generali della mia morte. L'esperienza non mi ha lasciato tristezza, ma piuttosto responsabilità: la responsabilità di ricevere nelle mie mani una torcia ora che gli amici non hanno mani. La generazione che va scomparendo non ha altre cose da dire, ma resta l'impegno di alimentare la misteriosa energia, senza corpo, senza apparenza eppure assolutamente necessaria alla trasmissione della vita, perché la vita sia accettata a occhi aperti dalle generazioni che succedono nel tempo. Quando, alla fine della liturgia pasquale, nello stadio di Spello, si ruppe la giara di coccio e si sparsero nell'aria i colori e i profumi dei fiori, il silenzio del mio fratello Carlo Carretto, metteva nelle mie mani questo «nulla» così importante. Me lo ritrovai davanti alla porta chiusa dietro la quale solevano accogliermi le braccia di Sirio Politi e stava lì, dietro la porta, incompiuta, la sua impresa di pace. Attraversando il cantiere risonante di colpi, vedendo emergere dai rumori violenti, le bianche sagome dei battelli impazienti di prendere il largo, pensavo a don Sirio costruttore, di pace, ma non pacifista, perché la sua pace era della qualità della pace di Cristo, perennemente crocifissa da tante violenze, dalla economica alla politica alla ecclesiastica. Quando arrivai al suo cantiere, seduto al grande tavolo, davanti ad uno dei suoi compagni restato fedele all'impegno di Sirio, ero ormai senza difese. Avrei ripreso le mie lettere, perché la pace continua agonizzando e forse resterà in agonia fino alla fine della storia.
Ho una buona notizia da darvi, amici italiani e sono tanto più contento di darvela, perché nei nostri incontri, ho forse manifestato sfiducia nel metodo democratico. Nelle elezioni del 15 novembre gran parte del popolo brasiliano ha dato prova di una maturità politica sorprendente perché non erano chiare le premesse di quelle lunghe campagne che chiamerei dottrinali, capaci di formare una coscienza politica, mantenuta addormentata per lunghissimo tempo. Era evidente che tutti quelli, nazionali o stranieri, che avevano interessi particolari, in queste elezioni, sapevano di rivolgersi a un popolo «ludico». Il popolo che non può rinunziare al carnevale, che vive appassionatamente le vicende del calcio, come l'entrata in guerra e l'armistizio, che sa incorniciare il culto in meravigliose coreografie. E come un popolo ludico andava trattato.
La campagna elettorale prese il tono della festa: gli operai sterminati davanti alle acciaierie di Volta Redonda, o i contadini assassinati davanti al filo spinato delle immense proprietà terriere, non avevano disarmato coloro che erano alla caccia di voti, ricorrendo a tutte le forme di anestesia che arrivano a getto continuo dagli esperti in tecnica pubblicitaria.
E il popolo nella sua grande maggioranza, ha scelto, guidato da una speranza di giustizia. Pensate un po', a modo di esempio, quale sarebbe la sorpresa degli italiani se il giorno dopo la consulta elettorale, scoprissero che in una grande città come Bologna o Firenze o Torino, la grande maggioranza non avesse scelto il candidato di Agnelli o di qualche grande partito; ma un oscuro calabrese unicamente perché «è uno di noi» che ha esperienza delle durezze della nostra vita. Non si griderebbe al miracolo? Eppure questo è avvenuto in una metropoli che si chiama San Paolo. Mi sento un po' triste nel pensare che queste notizie in Italia vengono assimilate immediatamente dal nostro ideario politico e culturale e saranno tradotte immediatamente in chiave ideologica. Per molti di noi che partecipiamo al faticoso cammino di questo popolo, il vero senso è che il popolo sa di esistere e di avere delle esigenze urgenti, che non sono esattamente le stesse di quelli che hanno ricoperto i muri della città del loro volto di persone soddisfatte, e comprato gli angoli più remoti per far rimbalzare il loro nome nella macchina della fantasia. Quale sarà il profitto politico di questo emergere del popolo, è difficile prevederlo. Mi appare in questo momento come una crescita di quel capitale di speranza che è l'occulta energia della pace.
Ho misurato in Italia la difficoltà del mio compito perché ogni volta scopro drammatica-mente la difficoltà del linguaggio. Il desiderio sincero di solidarietà, spesso non fa i conti col dislivello culturale che a me pare immenso. Eppure i morti mi chiedono di continuare a trasmettere il misterioso senso dei fatti. La storia è stata definita come storia della libertà, e quindi della pace: se si allontana da questo senso, la storia è inevitabilmente storia di guerra. Tutti gl'italiani sono convinti della necessità della pace; mancano due fattori importanti secondo me, perché questo desiderio di pace non resti inefficace: una capacità di rinunzia, di spogliamento che chiamerei povertà, e la volontà seria di scegliere le mediazioni che stanno al di là delle varie logiche. È su questo che le voci dei morti mi chiamano ad insistere: è come se passassero alle mie mani il filo sottile della vita. Ed è per questo che ritorno discretamente fra voi, cominciando con l'augurarvi buone feste.


F. Arturo


in Lotta come Amore: LcA marzo 1989, Marzo 1989

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