Vorremmo ritornare, su questo recente documento della Conferenza dei Vescovi italiani, non tanto per delle precisazioni, dei rilievi critici, degli umori visceralmente diffidenti. Non che non ce ne sia l'occasione. Specie per un tono che si sforza di essere semplice e discorsivo, ma che traspare ancora tanto paternalisrno o meglio la disarmante disinvoltura di chi sembra sempre dimenticare che i problemi non nascono come i funghi ed hanno una storia con cui è necessario fare i conti se si vogliono veramente affrontare.
Sappiamo che è vecchio discorso questo e non possiamo che continuare a soffrirne anche se con serenità, in fondo, come vecchie ferite che ricordano antiche battaglie il cui fronte si è ormai dilatato agli orizzonti dell'umanità.
Vorremmo invece prendere le mosse dal documento per raccontare i fili di una storia. Picco-la, povera storia eppure ancora viva e, speriamo, vivace.
Abbiamo sempre accolto la comunione come dono misterioso di Dio. Prima e al di là di ogni merito, di ogni ricerca, di ogni nostra iniziativa. Cieli che si aprono e rendono luminosi e finalmente veri i rapporti con Dio, tra di noi, con la creazione tutta.
La consapevolezza di questo dono ci ha sempre guidato in questi ormai lunghissimi anni. E se abbiamo cambiato abitazione e lavoro; se abbiamo dato sterzate per cui gli amici non ci hanno più ritrovati ai consueti appuntamenti del quotidiano, ciò è sempre stato perché guidati (o forse ancora una volta sarebbe meglio dire provocati) dal dono della comunione che esigeva di essere allargato, approfondito, buttato all'aria come zolla buona nel cui abbraccio seminare le novità che lo Spirito continuamente effonde.
Non abbiamo coscienza di aver tradito questo dono se non per la nostra pochezza umana.
E sappiamo che sarebbe stato possibile molto di più perché l'infinito Amore di Dio non ha misura. A questa misura non misurata vorremmo disporci ogni giorno per essere resi a poco a poco quel nulla che può davvero accogliere tutto.
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Abbiamo cercato di essere una comunità anche quando il numero dei membri era o è pro-prio... ridotto all'osso. Comunità e mai sistemazione, anche in questo tempo in cui il passare degli anni, le malattie, ecc., consiglierebbero di abbassare la cresta, di smussare gli angoli e di adattarsi alla vita comune come in una buona, simpatica, pensione familiare.
È rimasto - come all'inizio - un piccolo insieme di persone che ci tengono ad essere se stesse ed a questa «singolarità» non vogliono certo rinunziare. Per testardaggine, orgoglio, idealismo, fedeltà, accoglienza, sequela... fate voi! Però questa caparbietà, questa dimostrazione di autosufficienza, questa capacità di solitudine personale nelle proprie scelte e decisioni, negli impegni come nella testimonianza, ha reso e rende possibile per noi la vita comunitaria. E cioè il mettere insieme senza che questo significhi confusione; il sentirsi sostenuti a vicenda senza che questo significhi subalternità o divenga scaricabarile; un'autorità che nasce non intorno ad una persona, ma intorno a dei contenuti di cui volta volta ognuno può essere portatore.
Una vita comunitaria sempre poco «parlata» fino ad evidenziare una certa difficoltà nello scambio delle idee. Difficoltà certo ne abbiamo avute come tutti, ma forse gli strumenti della nostra comunicazione interna sono stati altri che non la parola. La sensazione comunque di un rispetto non solo formale, l'inutilità dell' averla vinta, la consapevolezza della assurdità nel voler ridurre tutto a problematiche interpersonali, la fiducia umana, l'affetto profondo, la disarmante capacità di disinnescare i momenti esplosivi con frizzanti autoironie... certo la convinzione che la comunità richiede notevole spirito di povertà. Povertà; ma non perché c'è da stare a sentire anche gli altri! Questo può al massimo far parte della buona educazione, del semplice buon senso. Spirito di povertà (e cioè condizione di ricerca, di sorpresa, di accoglienza... ) perché tutto quello che si può richiedere ad una comunità è - comunque e dovunque - sempre il rispetto per le decisioni e le scelte personali. E la comunità non può mai esigere «sacrifici» in questo senso. D'altro canto nessuno può imporre le proprie decisioni e scelte alla comunità e tutto deve avvenire attraverso una non sempre facile adesione nella libertà.
Da ciò si capisce che i tempi del vivere comunitario non sono i tempi dell'efficienza leaderistica, né quelli regolamentati dal democraticismo assemblare, né quelli determinati da pur ela-borati e sapienti progetti di esperienze comuni. Sono i tempi misteriosi del dono reciproco, della maturazione di sé, della libertà che fiorisce «obbedienza».
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Non crediamo che questo nostro essere comunità, nella Chiesa abbia mai preso i connotati della disubbidienza. Nelle varie controversie che ci hanno via via visti in contrasto con le diverse gerarchie, abbiamo cercato di lottare come uomini e donne, con la parola anche forte, il sentimento scoperto e non frenato, l'inventiva di forme rinnovate, ma non vi abbiamo mai messo in mezzo Gesù Cristo, anche quando stanchezza e sfiducia sembravano sommergerci in modo implacabile. Abbiamo lasciato quindi alla gerarchia l'ultima parola senza che questo divenisse peraltro scarico della nostra coscienza e responsabilità. Nella libertà da servami economici, da condizionamenti di identità e di ruolo, è cresciuta a poco a poco l'obbedienza alle correnti misteriose dello Spirito di Dio dentro la storia dell'umanità fino a rendere quelle le grandi «leggi» cui aderire senza disprezzare né assolutizzare le «piccole» e tante volte veramente «anguste» leggi ecclesiastiche. Molte di quelle disposizioni le sentiamo semplicemente inadeguate. Regole dettate più dal dovere del ruolo magisteriale che dalle esigenze di un cammino effettivamente in atto. Regole troppo vere in sé per poter illuminare un percorso di vita e troppo poco «salate» per provocare il gusto della ricerca della verità. Ma non ce ne lamentiamo troppo perché non si dica che siamo i soliti bastian contrari! Del resto il documento episcopale ripete lodevoli intenzioni perché si arrivi «alla promulgazione di leggi e alle successive modificazioni attraverso un cammino di comunione, assicurando sia la partecipazione attiva della comunità, sia il servizio di guida e di governo dei pastori cui spetta deliberare» (n°55,2). La nostra esperienza ci dice che occorre seminare tanta fiducia perché si producano questi frutti. Fiducia nella forza e nella presenza amorosa del Signore della storia; fiducia nella capacità dell'uomo di saper trovare strade di vita e non di morte nei difficili crocevia delle complessità originate dall'uso del sapere; fiducia nei doni costituiti dalle diverse competenze e dai diversi cammini di vita. Una fiducia chiara, aperta, senza riserve. Fiducia prima che scontento o amara constatazione di evidenti scollature. Un clima di particolare calore umano. Questa sappiamo essere l'unica strada perché si generi la vera, autentica obbedienza figlia della libertà. Perché nella disciplina indicata ed accolta si realizzi quella adesione interiore della coscienza che rinnova un atto di fede: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Giovanni 4,42).
La Redazione
in Lotta come Amore: LcA marzo 1989, Marzo 1989
Luigi Sonnenfeld
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