Il mio amico Sirio

La mia profonda amicizia con don Sirio è documentata in un libro sulla famosa crisi della Azione Cattolica, ai tempi del pontificato di Pio XII "La Gioventù Cattolica in cammino" dello storico Francesco Piva. Contiene una lettera trovata nell'archivio di Mons. Montini, nella quale io, in un momento particolarmente drammatico della mia vita, gli manifestavo l'impossibilità di sopportare ancora la situazione romana e l'enorme sofferenza che mi provocava. Gli raccontavo che l'unico sollievo era rifugi armi presso un grande amico con il quale condividevo le idee, gli ideali, i sogni: quell'amico era il parroco di Bargecchia di quel tempo, Sirio Politi.
Credo che basti questa lettera - che oggi è apparsa anche nel mio libro "Vivo sotto la tenda" - per dimostrare quale affetto mi legasse a Sirio Politi. E non era solamente l'affetto di confratello per un comune ruolo nella chiesa, era soprattutto l'affetto per una comunione di ideali, di sogni, di speranze.
Eravamo tutti e due molto motivati da un famoso libro "Au couer de masses" che tradotto in italiano ebbe un titolo veramente efficace: "Come loro" che a quel tempo apparve rivoluzionario. L'autore era René Voillaume il fondatore di tutti i movimenti che fanno parte della fraternità ispirata a Charles De Foucauld. La guerra cui parteciparono molti sacerdoti francesi, tra cui Voillaume, reclutati in quanto in Francia non c'era il diritto di esenzione per i preti, li convinse che era giunto il momento in cui il prete rinunciasse ai suoi privilegi e alla distanza che lo separava dal popolo e anche a quella specie di venerabilità della persona lontana che non si mescola col popolo. Si sentiva il bisogno di unirsi "a loro", come cittadini che condividevano e partecipavano gli stessi ideali. Questo ideale plasmò tutta la vita di don Sirio fino alla morte. A questo proposito devo dire che negli ultimi momenti della sua vita ho ricevuto messaggi e telefonate continue che mi trasmettevano momento . per momento le sofferenze che lo accompagnarono alla morte. Per questo affermo che sono stato profondamente amico, sempre, di don Sirio. Fu il medesimo ideale di uguaglianza che ci fece fare la scelta della stessa congregazione religiosa: io come religioso e lui come aderente, ma praticamente partecipe della stessa vita e della stessa spiritualità. Questa credo sia stata una sua caratteristica. Perché, vedete, ciò che univa i preti operai francesi e la nostra congregazione religiosa era cercare l'uguaglianza attraverso il lavoro nelle condizioni più umili, ma in più c'era per noi, e qui sta la differenza, l'idea dell'imitazione di Cristo nella povertà e nella laicità. Perché Cristo non apparteneva al personale del tempio e non viveva delle entrate religiose del tempio, ma ha vissuto del lavoro delle sue mani nel lungo periodo dei trent'anni vissuti nel "nascondimento" di Nazareth.
Vorrei ora sottolineare una cosa importante perché anche oggi di bruciante attualità. Attraverso crisi e sofferenze noi, con i giovani di quel tempo, abbiamo anticipato il Vaticano II nell'aspetto fondamentale di volere una Chiesa non parallela allo Stato, con quell'aspetto un po' dominatore del potere politico, piuttosto una chiesa distinta, seppure non separata dalla società umana. Perché il Regno di Dio - che è al centro del messaggio di Gesù e la cui proclamazione ci è affidata - si realizza non nelle accademie delle università o nei parlamenti dei politici, ma nella storia concreta dei popoli. E questo per noi è stato il valore ideale che abbiamo accolto e servito per tutta la vita e speriamo di non avere mai tradito né abbandonato. Abbiamo vissuto con il popolo le sue vicende, cercando nella sua storia il filo rosso del Regno di Dio. Perché il Regno di Dio si deve formare nella quotidianità delle sofferenze che il popolo vive. Ho condiviso sempre, in ogni momento con Sirio questo ideale: in 60 anni di assenza dall'Italia, ogni volta che potevo ritornare credo di non aver mai trascurato un incontro con lui confermandoci l'un l'altro in questo ideale di vita.
Ora passo ad un altro argomento, rifacendomi a quanto dichiarato dal prof. Pezzino a proposito delle conquiste della classe operaia. Non mi sembrano tali, in questo momento storico mi pare, anzi, che l'attuale precarietà del lavoro sia la distruzione di secoli di lotte, di conquiste, di sofferenze per il raggiungimento dei diritti fondamentali da parte della classe operaia. Non sono pessimista perché credo in Dio, in un Dio Provvidenza che aiuta, ma credo che non abbiamo mai trascorso un periodo oscuro come il presente. Lo sottolineo perché, pensando alle sofferenze passate per portare avanti gli ideali che abbiamo coltivato tutta la vita, li vedo non tanto cancellati, quanto privati di quel germe di sviluppo in cui avevamo sperato insieme, Sirio ed io.
Prima di terminare, vorrei collegarmi nuovamente a dei fatti storici che sono stati ricordati, perché ci guidino nel presente. Citerò una testimonianza che ci può aiutare ad assumere anche oggi determinate posizioni. Al tempo della famosa scomunica dei comunisti da parte della Chiesa, io ero in Sardegna e lavoravo con i minatori. Ricordo che i minatori erano stati esclusi dalla Chiesa: infatti quando si dice che la classe operaia si è messa contro la Chiesa si compie una inesattezza, perché è stata la Chiesa che ha escluso la classe operaia. Il nostro vescovo di Iglesias, che era un uomo estremamente rigido, ci chiamò e ci disse che se i minatori si fossero accostati al sacramento della confessione in vista della Pasqua, noi sacerdoti dovevamo chiedere loro se erano iscritti alla CGIL (non solo al PCI) e far loro strappare la tessera se volevano l'assoluzione. Altrimenti sarebbero tornati a casa peccatori. Ricordo che con i miei confratelli dissi: preferirei essere io cacciato dalla Chiesa, piuttosto che compiere un atto simile. Non l'avrei mai fatto, anche perché sarebbe stata come offendere Dio, non solo l'operaio. Per non so più quale circostanza, dovetti fare un viaggio a Roma e confidai il fatto a un amico gesuita il quale mi disse: perché oggi non vieni a pranzo alla nostra residenza? Lì troverai padre Cappello, un grande canonista (lo conoscevo di nome perché avevo studiato su un suo testo). Accettai l'invito e finito il pranzo dissi al padre che desideravo parlare con lui. Gli raccontai il fatto, confidandogli la mia preoccupazione perché gli operai, specie i più giovani, passavano molto tempo parlando con noi ed era probabile che avrebbero fatto la Pasqua e quindi chiesto di confessarsi. Cosa dovevamo fare dal momento che l'unica alternativa era chiudere la cappella e di andarcene, piuttosto che fare quello che il vescovo aveva ordinato? Padre Cappello, con il suo caratteristico sorriso gesuitico, mi disse: "Caro fratello, io penso che lei quando ascoltava le lezioni di diritto canonico sonnecchiava, perché la sua morale non è ben documentata. Deve sapere che per fare un peccato grave occorrono due condizioni (che non ho mai dimenticato): sapere che si fa un peccato grave ed avere la libertà di non farlo. Allora: i suoi operai si sono iscritti alla CGIL non per offendere Dio o la Chiesa, ma per salvaguardare i diritti che sono loro negati e nel farlo non avevano davvero l'intenzione di commettere un peccato, perché se si confessano vuol dire che conservano la fede e hanno intenzione di continuare ad aderire alla Chiesa. Siccome mancano sia la prima condizione, la coscienza di peccare, sia la seconda e cioè la libertà di non farlo (perché devono difendere insieme i loro diritti), dica al suo vescovo che nessuna persona, neppure il Papa ha diritto di considerare peccato quello che non lo è". Così, pur sapendo che a quel tempo tutti gli operai erano iscritti alla CGIL, durante la confessione ho evitato questa domanda. Vi ho ricordato questo episodio perché quando la Chiesa, in periodi particolarmente bui pone scomuniche, non è detto che si debba obbedire, dimenticando che siamo ministri di un Dio misericordioso e intelligente, molto più intelligente di ciascuno di noi.
L'essere riuniti qui per la ristampa del libro di don Sirio, mi ricorda la grande, calorosa amicizia che mi ha legato a lui e i giorni del nostro lontano passato, molto duri per me e probabilmente anche per lui. Un tempo difficile, ma anche bello, splendido, perché ci ha maturati e fatto sentire la necessità, come preti, di essere vicini al popolo e di sostenerlo nella ricerca di liberazione. Si parla oggi, di nuovo, della teologia della liberazione e quindi del valore evangelico della libertà che è sostanziale, fondamentale. Occorre non dimenticalo, specialmente oggi, per esempio quando si vota. Il popolo italiano sembra non considerare il voto politico come un fatto di grande importanza e responsabilità. Non si vota più per convinzione, per volere una nazione libera e giusta, ma si vota in base alle parole di propaganda, alle suggestioni, alle immagini che ci vengono proposte. E questo è molto doloroso. lo vorrei che il popolo italiano acquistasse coscienza della propria soggettività e della propria responsabilità. E la Chiesa dovrebbe educare a questa soggettività e a questa responsabilità. Non siamo delle pecore: siamo delle persone umane che pensano, che amano, che portano le loro responsabilità verso tutto ciò che è giusto, pacifico, umano. Essere cristiani non significa solo il privilegio di andare in chiesa per ottenere consolazione e conforto, ma soprattutto quello di acquistare coscienza delle nostre responsabilità. La società politica non la fanno i parlamentari. La società politica la facciamo noi: non con il criticare quello che vien fatto, manifestando solo una generica scontentezza. Ma con l'assumerci la nostra responsabilità: questo bisognerebbe dire ad alta voce e gridarlo nelle piazze. Perché oggi si va al voto senza alcuna responsabilità. Non era così nell'immediato dopoguerra, quando si voleva costruire un paese davvero più giusto. Tutto questo si è perduto ed è molto doloroso anche per chi crede. Ricordiamoci che essere cristiano non significa solamente avere fede in un Dio trascendente, ma avere il senso della responsabilità di ciò che lo stesso Dio vuole da noi su questa terra: una società vera, giusta, umana che deve lottare perché la ricchezza sia distribuita tra tutti e ciascuno abbia una risposta all'esigènza di giustizia che sta dentro di sé.




fratel Arturo Paoli


in Lotta come Amore: LcA dicembre 2008, Dicembre 2008

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