Ci sono dei momenti, ma possono essere giorni, mesi, in cui lo scrivere risulta uno sforzo quasi impossibile e il foglio bianco diventa un incubo. Forse anche il parlare, perché gli avvenimenti hanno bisogno di una loro decantazione prima di poter esprimere il senso di un cammino in salita o discesa che sia. E questo è per me un momento di avventura di cui non so bene valutare la portata. E' un po' come quando ci si alza prima dell'alba per partire e con gli occhi ancora mezzi chiusi si sbircia il cielo dalla finestra per tentare di interpretarne i segni ancora molto incerti.
E parlo di avventura nel senso migliore del termine e cioè quando l'avventura stessa è proposta dalla realtà delle cose, dagli avvenimenti che la storia prepara e che l'esistenza personale avverte man mano che l'età avanza e i contorni delle proprie responsabilità si fanno sempre più precisi.
D'altra parte questo giornaletto viene fuori così di rado che non è possibile non inserirvi almeno qualche riga se non altro per dire agli amici: «eccomi qua. sono sempre vivo».
In questi ultimi anni ho cercato di resistere alla disperazione crescente degli avvenimenti tentando di cucire giorno dopo giorno un tessuto di speranze, di lotte, di rianimazioni, ed entusiasmi dovunque avvertissi la possibilità di una crescita di umanità, di un incontro di sensibilità, di un confronto aperto. Ed è stata come una lunga liturgia eucaristica vissuta alla luce pallidissima del rinnovarsi delle coscienze, spezzando il pane del desiderio emergente di una vita qualitativamente diversa, di una possibilità di confronto nelle libertà reciproca, di un profondo desiderio - alimentato da un'istintiva ostilità - di penetrare nel cuore del dolore e della morte per affrontare a viso aperto la vita.
Sono stati gli anni del lavoro nel baracchino qui, vicino alla chiesetta. Un lavoro povero, insignificante, quasi da cenciaio. Eppure una cosa così tanto mia non l' ho mai avuta. Sono stati gli anni in cui sono uscito pochissimo dal guscio della Darsena in una ricerca molto istintiva di radici concrete di umanità, di amicizie, di gesti quotidiani che mi aiutassero a resistere ai venti che riempiono il cielo di nuvole fino ad impedire alla luce di filtrare e preparano il tempo della disperazione.
Ora molte cose sono cambiate, nel quotidiano e nella prospettiva, ma non credo affatto nel peggio.
E stato come il lento rientrare dall'eremo alla vita della città. Un mutamento radicale di movimenti, di ritmi, di suoni e di incontri. Ed ora non è più il tempo in cui star seduto fuori della porta ad aspettare il mondo che passa, ma il tempo di saltar su la sella degli avvenimenti e degli scontri degli uomini. So di perdere molto della mia tranquillità; ma mi aiuta un carattere da plantigrado (almeno così dicono all'esterno...).
Mi sento tremendamente sprovveduto ad entrare nel vivo di situazioni e di problematiche che sono senz'altro più grandi di me. Ma confido nel taglio «sacerdotale» della mia vita. Non mi so molto meglio esprimere. ma intendo una «laicità» di fondo che mi permette (almeno mi sembra) di non essere conquistato dal potere che anche i valori più veri e più sacri possono avere sull'uomo proprio perché sono radicato nella vita di un Uomo che abbraccia l'umanità da una croce innalzata per affermare la superiorità del «sabato» sull'uomo stesso. E questo non per un sacramento ricevuto una volta per tutte, ma per la verifica non facile, ma continua, della conversione gioiosa e della penitenza.
Ma qui vado veramente nel complicato. ammesso che ci sia della semplicità in quello che io scrivo! Quando non ci sono segni chiari è veramente molto difficile far capire quello che si muove sotto la pelle.
Una cosa mi sembra di poter dire con chiarezza. E riguarda il lavoro che sto facendo al capannone.
Un progetto di lavoro che si muove lentamente, con mille difficoltà facilmente comprensibili. Un progetto che condivido con gli altri compagni fino a che, sia pure nei difficili contorni dell'utopia, trova lo spazio per muoversi verso una realtà di lavoro meno separata dal resto della vita e meno separante gli uomini tra loro. Verso condizioni di collaborazione concreta, di superamento di deleghe e di ruoli per scavare il proprio tiepido privato nelle pieghe dello sfascio pubblico. Nella ricerca di iniziative di rapporto con chi condivide le nostre speranze e la nostra condizione di ricerca.
Non mi basta la «rimpatriata» che abbiamo fatto, anche se non ne sottovaluto la portata. Il fatto di lavorare di nuovo insieme, preti ed amici ormai da tanti anni. è fiore che appassisce presto se vive del ricordo e non trova motivi serrati e decisivi per vivere di nuovo. Ed i motivi ci sono. Io, senz'altro, prendo le cose un po' a zuccate e vorrei buttar giù le porte al più presto forse per un vecchio difetto di claustrofobia, ma sento che se ci lasciamo crescere l'erba sotto i piedi... Ognuno di noi in fondo a parole è un guerriero, ma amiamo, abbiamo bisogno come tutti di vita tranquilla.
E dopo l'anno dei debiti (quelli in soldi tanto per intendersi) ora possiamo un po' respirare e cominciare a guardare più avanti, ma la tensione rimane; si è sempre in debito di ossigeno per le energie, il tempo, le idee, le conoscenze... Forse questo ci rende meno disponibili, ci può far sembrare dei fanciulloni tutti presi dal loro nuovo giocattolo, non so... Bisogna che gli amici si adattino al fatto che dai vecchi tronchi può sempre spuntare qualche ramoscello di pazzia.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA febbraio 1981, Febbraio 1981
Luigi Sonnenfeld
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