A volte mi viene il dubbio se il mio riflettere alle cose che accadono, al momento presente di esistenza umana nella quale mi ritrovo a vivere, cammini sul filo di ragionamenti normali, di persona equilibrata o se invece segua, per una tendenza ormai incorreggibile, una rotta essenzialmente sballata e assurda. Forse mi si è bloccato il timone e la mia barca non tiene conto dei venti, delle condizioni del mare e fila sulla cresta delle onde senza orientamenti di bussola, ma forse soltanto tenendo d'occhio le stelle.
Confesso di rinvenirmi spesso smarrito come chi, pur sapendo dove vuole arrivare e conoscendone anche la via, girovaga qua e là, in cerca, sembrerebbe di non sapere bene che cosa. Non chiedo niente, non mi aspetto niente, perché mi sento al di là perfino del desiderio, mi avvedo, che è troppo e non mi può essere concesso. So bene che è molto triste e spesso è angoscia soffocante, cercare ciò che forse non riuscirò mai a trovare, sperare quello che forse non avverrà, lottare ed essere sicuri che la lotta è perdente. Allora non rimane che offrirsi ad occhi chiusi, accogliere tutto senza scegliere e forse senza nemmeno più discernere, perché forse esiste ancora una Verità e cioè che il dimenticarsi sia il vivere più puro e l'Amore più vero. Perché è in questo dimenticarsi (lo sparire del se stesso, facendo vuoto totale) che può essere il trovare un senso alla mia vita e più ancora una verità di rapporto, di comunione con la realtà nella quale sono immerso. Sta il fatto che una possibilità di vita sta tutta nella cocciutaggine del credere ad alcuni valori, alcuni progetti fondamentali, essenziali, decisivi. Non può e non deve impressionarmi e stancarmi il motivo che questi valori siano un'assurdità, fuochi fatui assolutamente incapaci di significare calore e luce. Perché è vero che la loro «vanità» non è determinata, ne sono sicurissimo, da un sopravvenire d'incostanza, d'irrazionalità. Sono pietra fondamentale sulla quale è possibile unicamente costruire umanità, soltanto è successo che il deviarsi del criterio di giudizio e il suo banalizzarsi, li ha costretti ad uno scadimento progressivo fino a spingerli all'emarginazione, a poco a poco sull'orlo dell'abisso del vuoto di attenzione e di apprezzamento.
Questi valori sono ormai e forse definitivamente un ricordo o fanno parte di racconto da favola d'altri tempi.
Ciò che rimane e è la controprova della loro validità assolutamente insostituibile, è tutto ciò che li rimpiazza, che sta alloro posto come «novità» voluta, cercata e imposta: e sono rovina distruzione e morte.
Tutto questo per introdurre riflessioni su due di questi valori storicamente perduti e sostituiti. In questi giorni e per costatazioni di costume imperante e per fatti di cronaca quotidiana, mi è avvenuto di pensare alla Povertà e all'Amore fraterno, quest'annuncio che sta alla radice del messaggio del Vangelo e che, volere o no, decide di un progetto di umanità.
La terra è andata inaridendosi, incoltivata e abbandonata e i rovi e le spine la stanno sopraffacendo, è strada e piazza, sassosa e aspra, quasi si è fatta nemica e anche il seminatore non si alza più al mattino col suo sacco traboccante di fiducia a gettare il suo buon seme perché anche la speranza di trovare terra buona, per il trenta il sessanta il cento per uno, si è affievolita fin quasi a scomparire.
Succede raramente di sentir parlare con convinzione, credendovi fino in fondo, di povertà. L'annuncio si è fatto contorto, prudente, arrotondato e, per dir meglio, spiritualizzato. Come chi dice e non dice, afferma ma senza affermare. La Parola qui assai più che in altra predicazione non è «si si, no no» e senza la percezione, la coscienza, che in definitiva poi, «tutto il resto che può essere detto viene dal maligno». In questo problema così alla radice del progetto cristiano, la fedeltà e l'obbedienza all'annuncio manca del coraggio della trasmissione esatta della Verità per il semplice motivo della insufficienza di coraggio (e di Fede) per un coinvolgersi con la Parola, realizzando la rottura indispensabile e la proposta concreta, spietata.
Nel tempo in cui il capitalismo è arrivato fino al punto di riuscire a imporre il suo modello (mentalità, prassi, costruzione personale e realtà concreta di rapporti sociali, politici, culturali ecc.) un discorso di povertà è assolutamente inaccettabile, assurdo, pazzesco. E chi può ascoltarlo?
La ricchezza, quella grandissima, esorbitante, illimitabile, ma ugualmente quella più ridotta e limitata, fino a quella che dà un minimo di sicurezza e sistemazione, sono condizioni di ripiegamento e di chiusura fino al punto da stabilire un vero e proprio istinto di conservazione. E' questa istintività dell'aggrapparsi violentemente, esasperatamente al possesso (anche se si tratta di quattro soldi e di due mattoni uno sopra l'altro, come del banco ambrosiano o della multinazionale della coca-cola, della carica di consigliere comunale o di primo ministro...) che provoca disumanità, in misure diverse, ma qualitativamente identiche. E sono maturati quindi i tempi in cui conversione, liberazione, rivoluzione, sono messaggi inascoltabili perché assolutamente senza senso, incomprensibili, assurdi. Per il semplice motivo che qualsiasi proposta di «cambiamento» è capito e accettato esclusivamente in ordine ad una crescita di possesso (di ricchezza, di sicurezza temporale, di sistemazione, di potere). Un cambiamento cioè una mutazione per un aggravamento di perdizione (evangelicamente parlando), non di salvezza, di liberazione.
Esattamente ciò che avviene per gli armamenti, o per il modello di sviluppo imperante, l'industrializzazione ecc. L'unico cambiamento ipotizzato e dichiarato possibile, è l'accentuarsi della produzione, è il progresso tecnologico, il consumismo (anche se non più sbandierato come soluzione economica).
L'annuncio della povertà come contenimento di questo affidarsi e consegnarsi alla ragione economica, alle leggi del profitto, alla ricerca del privilegio, è Parola letteralmente così ridicola, umoristica, che è assurdo proporla nella sua crudezza e nudità e tanto più inimmaginabile (forse anche per la fantasia di un santo) una sua possibilità di traduzione in qualsiasi progetto esistenziale, individuale o collettivo che sia.
E' preferibile non parlarne o al massimo in termini esortativi, al condizionale, per l'intenzione e non di più, d'impedire che gran parte dei quattro Vangeli (se non totalmente) diventino pagine bianche o racconti alla Cervantes.
Ugualmente è per il messaggio dell'Amore fraterno, della fraternità: perché i due valori, povertà e fraternità, sono legati e dipendenti vicendevolmente fino alle misure dell'identità.
Altro discorso, questo dell'Amore fraterno, dell'uguaglianza degli esseri umani, della dignità umana, della responsabilità vicendevole, dai livelli individuali fino a quelli di popoli e di continenti, che se fosse affrontato e vissuto sulla misura di serietà che impegna e coinvolge, Dio, Gesù Cristo, l'umanità intera, sarebbe discorso poco più che risibile, penoso, assurdo.
Può essere questa affermazione, al solito, giudicata eccessivamente azzardata e maculata di pessimismo, di giudizio volutamente negativo. E sarà cosi, sta il fatto però che, come un po' sempre nella storia ma tanto più attualmente, non si vuole avere, non soltanto il coraggio della Parola, ma neppure quello dell'analisi, della diagnosi. E per una cultura seria e responsabile, è un gravissimo male, tanto più poi per un Magistero della Verità teologica e morale, che, prima di tutto è chiamato al discernimento della malattia per poi provvedere alle terapie del caso.
La condizione storica della convivenza umana nelle sue radici è sempre più, con un progresso spaventoso, nelle sue manifestazioni di vita vissuta, la morte. La civiltà intesa (e in quale altro modo potrebbe intendersi?) come volume indispensabile e necessariamente in crescita, di benessere materiale, non può fare a meno, come i sistemi attuali economici, politici, imperialistici esigono, che rifarsi alla morte. Morte di fame, di sete, di oppressione, di schiavizzazione. Morte di soffocamento nel sangue di rivoluzioni liberatorie, di diritti ad essere popoli liberi, di ansia disperata di almeno un'ombra di dignità umana. Morte per ottenere o stabilire preminenze d'interessi personali o di gruppi di potere, affermazione d'interessi capitalistici e di potenza politica, ambizioni pazzesche di dominio incontrastabile, assoluto. Terrorismi organizzati e pagati da chi sa chi, non certamente da benefattori dell'umanità, sequestri di persona dove carne e sangue sono scambiabili con denaro prezzo di morte...
Il mondo è posto sul piatto della bilancia maledetta e sull'altro piatto è deposta, freddamente, a calcoli computerizzati, la morte.
Anche la pace (e è parola sintesi, contenente e significante umanità) è speranza dipendente dagli equilibri del terrore e cioè riposa (!!!) sul potenziale esistente e in crescita della morte universale.
Riflessioni che son diventate perfino vecchie, come una corona consunta di rosario, che ci vuole perfino del coraggio (il coraggio di un discorso inutile) a ripeterle.
Va bene e allora continuiamo a biasciare giaculatorie sull'Amore fraterno, a sentimentalizzarci sulle opere buone e sospirare invocazioni pietistiche nella preghiera dei fedeli. E nel frattempo chiara volontà, anche nel popolo della Fede e della scelta cristiana di fraternità nei rapporti fra gli esseri umani (compresi naturalmente e non è chiarissimo, programmatico messaggio cristiano? i cattivi, i peccatori, i nemici) di mantenimento dell'ergastolo, di una pistola in tasca a legittima difesa degli onesti, cioè di chi ama il suo prossimo, di leggi repressive di polizia, sempre per la tutela degli onesti.
Volontà, qualsiasi possa essere la sua analisi referendaria, assai vicina se non proprio vera e propria indicazione che la pena di morte sarebbe l'unica soluzione di questo brigantaggio che mette in pericolo la tranquillità dei «buoni». E non voglio, volutamente, accennare al problema dell'aborto, perché, nonostante l'enormità di questo problema di morte, a non parlarne con il preciso frasario del movimento per la vita, si rischia la «sospensione a divinis». E non voglio per l'Amore che ho per la Chiesa anche gerarchica, che risulti la Chiesa una qualsiasi centrale di potere capace di «uccidere» sia pure spiritualmente.
Dunque c'è una certa resa nei confronti di questi due essenziali messaggi del Vangelo: le condizioni storiche maturate in questi nostri tempi, rendono impraticabile perfino l'annuncio della povertà e della fraternità. L'impossibilità dell'ascolto zittisce la Parola e così il vivere e il convivere s'immiserisce sempre più di valori essenziali, capaci dell'unica vera ricchezza. E succederà inevitabilmente che il vuoto dei valori essenziali, quelli che stanno alla radice, si dilaterà fino a inghiottire i surrogati, i valori secondari, marginali. Perché sta scritto che per avere il di più è indispensabile cercare prima il Regno dei cieli. Non cercare l'essenziale, lasciarlo anzi cadere nel vuoto del deprezzamento e della disattenzione, è giocare irrimediabilmente anche il superfluo. E a quel che sembra stiamo camminando allegramente su questa strada.
Penso e credo che esistano delle gravissime responsabilità. E le più pesanti gravano su chi è stato chiamato al ministero della profezia e ne ha e ne deve avere il cuore e la Parola. Il mondo può andare in rovina se la storia dell'umanità lo vuole, ma guai se venisse a mancare la profezia, questo misterioso e luminoso discernimento dei segni dei tempi, la rivelazione fedele e libera del giudizio di Dio, l'indicazione esatta dove è la salvezza e dove è nascosta la perdizione. Si stanno compiendo i tempi in cui una scelta di Fede esige e comporta la scomodità e il rischio di essere, senza affatto climi d'eroismo e di martirio ma di semplice linearità, un «segno di contraddizione». Una realtà di contrasto, cioè, di scontro, di lotta. Se non altro per chiare e stranissime preferenze, per progetti coraggiosamente alternativi, per pensieri assolutamente diversi, per fantasia decisamente bisognosa di novità. È verissimo: un coraggioso sputare sul piatto di lenticchie, rifiutarsi di cambiare pietre in pani, di tentare miracolismi per avere il plauso delle folle, ridacchiare sulle suggestioni del potere, della carriera, della sistemazione. E semmai aprire le mani ai chiodi di un imprigionamento all'Amore e distendersi sul legno duro della Povertà.
Discorsi religiosi, meditazioni misticheggianti, raffinatezze contemplative: può darsi e non me ne dispiace affatto. Ma è anche poesia di spazi infiniti, respiro profondo di cuore dilatato oltre ogni misura, anima colmata traboccante di libertà e sogno meraviglioso sempre sognato dall'Amore di Dio e sempre in attesa di diventare storia.
E nel mistero di questo «divenire» è bellissimo gettarvisi dentro e lasciarsi travolgere e macinare in una perdizione scavata dal gettarsi di Dio nell'abisso dell'umanità.
Sirio
in Lotta come Amore: LcA giugno 1981, Giugno 1981
Luigi Sonnenfeld
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