La posta di Fr. Arturo Paoli

Carissimi Amici italiani
Oggi trenta novembre 81 compio sessantanove anni ed entro nel tratto che mi condurrà rapidamente ai settanta. Dico rapidamente per l'esperienza di questi ultimi decenni che sono trascorsi a un ritmo impressionante: ho presente la possibilità di non toccare il traguardo dei settanta, e questa prospettiva, nonostante che ami molto la vita, non mi fa increspare di spavento. Compio gli anni nella città messicana di Guadalajara in una casa amica accompagnato da due fratelli, e mi sento in una vera famiglia. La prima cosa di cui ringrazio Dio e lo ringrazierò eternamente è del dono dell'amicizia. Si dice che la cosa più importante è la salute, e io correggo che la cosa più importante è l'amicizia. A che varrebbe una buona salute, una lunga vita, se il tempo non fosse altro che un lento inabissarsi verso la solitudine e la sofferenza insopportabile di non sentirsi atteso in nessuna parte e da nessuno? Non è già l'inferno questo convivere senza comunicarsi profondamente? Per questo dono dell'amicizia accetto cordialmente 1'«inconveniente» di essere uomo che semina crucci e inquietudini (v. Ger. 15,10). Questa mia vita avventurosa e polemica sarebbe davvero una rovina più che una grazia, se non fosse contenuta entro due argini che la infinita sapienza e bontà dell'Amico ha pensato di costruire e di mantenere. Un argine è l'amicizia, cioè lo scoprire quotidianamente che esiste un tipo di comunicazione libera dell'ideologico, sciolta da qualunque interesse, che attraverso l'amicizia l'uomo si tocca con l'uomo al di là, e al di sopra e talvolta contro le differenze che nascono per le nostre scelte. Il secondo argine ed è fatto di pietra, di roccia, è aspro orribile a vedersi é lo scoprirsi nell'ultimo. gradino sotto il quale non sta nessuno. Sempre mi sta presente una confessione di Santa Teresa d'Avila che racconta in termini che oggi ci sembrano infantili come la pittura dei primitivi, che Gesù la prese per mano e la condusse all'inferno. Questo scorcio «primitivo» è di una verità incredibile. Veramente non esiste una esperienza di Dio cosi profonda e salutare come quella che si fa «dall'inferno».
Non si tratta di una convinzione, di una conquista intellettuale, si tratta di una situazione reale, di un essere in un luogo, come ora sono in Messico a Guadalajara. In questa posizione dell'ultimo gradino non è possibile giudicare, perché il giudicare suppone qualcuno che sta di sotto. Il giudice è uno che siede in un luogo soprelevato: «I maestri della legge e i farisei si sono seduti sulla cattedra di Mosè» (Mt. 23, 2)
È una grazia durissima quella di sedere nell'ultimo gradino, vivere l'esperienza di quelli che si sentono esclusi dall'assemblea dei santi, eppure capisco razionalmente che è la sola condizione per accettare un ruolo di critica, condizione per aiutare i nostri fratelli di fede e vivere in un mondo che sfida costantemente la nostra fede. E questa sfida non è un fenomeno patologico della storia, è il senso della storia. Che è la fede se non la lettura dell'alleanza, del processo di salvazione e di liberazione che il Signore Gesù va attuando e realizzando nella storia? Proprio questa storia che sfida la nostra fede è la polpa della nostra fede e della nostra speranza. Se ci allontaniamo o tagliamo corto la fede si trasforma in ideologia e facilmente giustifica tutte le aberrazioni contro la giustizia.
Questo che vi dico in un linguaggio difficile, l'ho scoperto e lo vado scoprendo nel mio soggiorno in America latina, e direi con i poveri e per i poveri dell'America latina. Per questo ringrazio Il Signore di avermi messo di malavoglia, lo confesso, su una nave da un carico in partenza per l'America latina e di avermi spedito con altra mercanzia verso questo continente.
Avrei scoperto in altra parte questa dimensione di fede? Ho davanti a me un quadro dell'episodio di Emmaus: dietro il gruppo del tre pellegrini sta la "massaia" che attinge a un piatto che le presenta un ragazzotto, il figlio, la carne e il contorno che distribuisce nei piatti. Avrebbero scoperto i due viandanti il Cristo della strada, quello che comparte la mensa e che mangia il pane e i pesci con gli uomini senza questo viaggio? Chi lo può dire? È certo che il tratto di strada resterà importante per loro, «storico».
Per questo per me l'America latina non è né il «meglio» né il «più», ma semplicemente il luogo dove il Signore risuscitato mi si è rivelato. Credo che con quello che ho detto sopra non mi stimerete un visionario, né un mistico, perché lo stile di questa rivelazione é dall'«inferno»; esattamente come il figliol prodigo comprende suo padre quando sta in mezzo al porci. Già che ho toccato il tema dei due argini vi vorrei parlare dell'amicizia e dell'esperienza dell'inferno, come posso. Riguardo all'amicizia mi sono regolato sempre con una indicazione di San Giovanni della croce: «quando di una amicizia posso parlare con Dio, mi sento tranquillo». In questa linea mi sono sentito libero, straordinariamente libero sentendo dentro di me che le diverse esperienze di amicizia aumentavano la mia intelligenza del Vangelo e quindi la mia amicizia con il Cristo. Sono cosciente di non aver lasciato in tutti la impressione e il ricordo di essere amati: nessuno di noi ama come dovrebbe quanto dovrebbe e chi dovrebbe. È sperabile che i vuoti che lasciamo, si facciano sete e fame di Dio. La mia «esperienza dell'inferno» é incomunicabile. È uno di quei segreti che restano segreti perché per quanto uno sia estroverso, non riuscirà mai a tradurre in termini di logica. Non mi sento modello perché Gesù con me non ha lavorato il modello, non se ne è preoccupato: mi ha usato e mi sono lasciato usare: «Mi hai sedotto Yaweh, e mi sono lasciato sedurre da te. Mi hai fatto violenza e sei stato il più forte. E ora sono motivo di risa e tutti mi prendono in giro» (Ger. 20,7). A volte per il vezzo che mi ha lasciato l'educazione religiosa, mi viene fatto di guardarmi allo specchio e mi succede che o mi vedo disperatamente deforme, o lo specchio si appanna e non vede nulla. L'essere sedotto vuol dire l'essere fatto strumento, rinunziare per sempre ad essere un modello. Sono due metodi differenti, due stili della nostra relazione col Cristo. Non si può scegliere o l'uno o l'altro come si scelgono i pantaloni azzurri o neri, perché chi sceglie è Lui. Sono felice di questa scelta perché sono convinto che è la migliore per me, anche se difficile. Voglio approfittare dell'occasione per ringraziarvi del vostro ricordo e di quanto fate per me e soprattutto di interessarvi alla mia vita: è un segno di amicizia. Dopo il Messico sono stato una quindicina di giorni in Nicaragua. Penso di scrivere abbastanza sul Nicaragua, sicché voi coglierete le mie impressioni qua e là. Vi voglio dire solamente alcune cose: che in Nicaragua ho molto sofferto al punto da cadere ammalato e ho molto goduto, più che goduto direi più esattamente che mi sono sentito in pieno entusiasmo nell'incontrare persone che credono in un ideale.
Le ragioni della sofferenza - le ho pensate profondamente - sono sopratutto due: io sono sicuro che la rivoluzione sandinista è nata da una radice cristiana, cioè dall'impegno di realizzare una società più giusta, più umana, più fraterna. Quando uno pensa di trasformare la società - lo costatate anche in Italia - partendo dal programma di valorizzare il popolo, i poveri, è accusato di comunista.
Ogni iniziativa di aiutare il povero è comunismo. La cosa che mi ha fatto soffrire è vedere i membri della Gerarchia non capire che avevano un'occasione unica di fare una rivoluzione in nome di Cristo, e hanno cominciato col diffidare.
Avete mai visto al mondo che una persona di cui si diffida, alla quale facciamo sentire da principio: - Ragazzo mio, io non ho nessuna fiducia in te, so che tu pensi di gabellarmi - che si apra, che si disponga ad accettare i nostri consigli, che voglia bene? I Vescovi hanno scritto una pastorale splendida il lunedì e il martedì hanno cominciato a far sentire alla organizzazione sandinista e ai loro capi:
Sarà, ma voi puzzate di comunismo leninismo, noi non abbiamo nessuna fiducia in voi! Avrebbero cominciato col diffidare se non fossero stati spinti dai cavalieri cattolici, dai buoni borghesi supercattolici che sono la gramigna della Chiesa? lo penso di no, quindi è nata una spaventosa associazione fra i ricchi e i borghesi e la Gerarchia. Personalmente penso che se la gerarchia si fosse buttata a capofitto con fiducia, non in maniera stupida ma conservando lo spirito di critica, dalla parte dove sta il popolo e dove deve stare il popolo, avremmo visto qualcosa di assolutamente nuovo e meraviglioso, il venire alla luce di tutta la forza rivoluzionaria del Vangelo. Altro che le statue di Riace!... Sarebbe apparso il vero volto di Gesù. Perché tarda questa epifania?
La seconda cosa che mi ha fatto soffrire è constatare che un popolo che è stato sotto una dittatura delle più dure e delle più corrotte per trent'anni e si è abituato a vivere di espedienti, a sopravvivere come i topi a cui nessuno pensa di preparare il pasto regolamentare come si prepara al cane da caccia che è costato tanto e che bisogna tener caro, non può essere libero da un momento all'altro. Trent'anni di esclusione assoluta da ogni interesse politico. Somoza fa tutto lui e voi dovete starvene al vostro posto sgobbando tutto il giorno, contentandovi di quello che vi danno, e se parlate c'è la camera di tortura. Naturalmente questo popolo non può in ventiquattr'ore trasformarsi in un popolo politico, come supporrebbe il socialismo, cioè in un popolo consapevole di essere il costruttore e il responsabile della sua vita. Mi facevano pensare molto le leggende sui veicoli pubblici, sulla porta di edifici o di ville: Questa è proprietà del popolo. Per poter godere di queste proprietà è necessario un lungo tirocinio, di preparazione politica. La sofferenza viene non dal fatto di constatare che questo clima ancora non si da, ma dall'impazienza di volerlo già oggi, ora.
L'aspetto positivo è sentire quasi fisicamente. quasi portato dall'aria la forza spirituale di quelli che credono nel cambio e nella possibilità di una società giusta. Quando vi dicono dei cubani che si sono infiltrati in Nicaragua. rispondete che è certo. Ma rispettate profondamente uomini giovani che lasciano la famiglia e la loro terra e vanno nei luoghi più difficili, più pericolosi per le malattie, per la mancanza di alimento, per le insidie dei controrivoluzionari, per insegnare come maestri o curare come medici. Quando cattolici borghesi fra una tirata di fumo e l'altra e un sorso di vino e l'altro criticano questi cubani, la risposta semplice e diretta é questa: - perché non lo fate anche voi? se il Vangelo vi preme, se siete punti dalla passione del regno, prendete le vostre gambe e andate dove sono i cubani. nessuno ve lo impedisce avete come loro le strade aperte... È una sfida ai cattolici che hanno la bocca piena di ideali, e non sanno prendere il bastone, la bisaccia e avviarsi. Se il nostro amore al Vangelo, la nostra passione del regno non ci spinge a tanto accettiamo in pace la nostra sconfitta. Non è leale né giusto combattere i cubani con la forza della legge o con la forza delle armi americane; abbiamo mai pensato a sfidarli con la forza dell'amore? Ti vinco perché amo di più, e te lo dimostro perché spingo il mio spirito di sacrificio e la donazione di me, oltre i confini che tu hai raggiunto. Se siamo capaci di questo perché temere i cubani? Già li abbiamo vinti.
Vi abbraccio uno a uno augurandovi buon 1982


Artur Paoli


in Lotta come Amore: LcA gennaio 1982, Gennaio 1982

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