I tuoi figli. o Signore

Sono tornato stamani sulla strada, in una lunga processione di uomini e donne, colorata di striscioni e bandiere rosse: Camminavo come portato, partecipe, certo, e a gran cuore, ma anche con fatica e stanchezza. Perché mi pareva di camminare da un'eternità e lungo una strada di cui non vedo più la segnaletica e meno ancora dove conduce.
Mi accendeva questo sole di giugno e quasi mi abbacinava gli occhi e mi bolliva sulla testa spelacchiata di capelli bianchi, ma non mi scaldavano il cuore gli slogans quasi ridotti a uno solo, martellato come quando batte il martello sull'incudine e rimbalza negli orecchi e nell'anima, fino a stordire. E non mi piaceva quell'insistenza monotona, caparbia, come rabbia smarrita, disorientata, a cercare il nemico imprecisabile, inafferrabile e allora si concentrava su quel cognome riversandovi una rima di disprezzo, ma anche, quasi, d'implorazione. "Merloni, Merloni, non romperci i coglioni". Il presidente della Confindustria e il povero popolo. Per "salvare" il capitale rifacendosi sulla scala mobile. Il povero popolo per "salvare" il salario sempre più divorato dal costo della vita. L'incontentabilità del benessere da una parte e dall'altra. E per gli uni e per gli altri sempre pochi questi maledettissimi soldi. E la paura che siano sempre di meno. E la voglia incontenibile che siano sempre di più.
Camminavo con estrema stanchezza e con indicibile angoscia perché mi sentivo dentro, coinvolto, in uno scontro, in una guerra nella quale non ho voglia di combattere.
So bene che gli operai hanno ragione a difendere la scala mobile e a gridare e a scioperare e a lottare che "la contingenza non si tocca", ma non è possibile non prendere coscienza che il male è alla radice, sotto la crosta delle emergenze, nel tenebroso abisso dove si muovono e manovrano i grandi interessi, e gli sfruttamenti più spietati diventano "ragione" anche se ragione economica, questa irrazionalità intessuta soltanto di disumanità.
E il camminare e camminare con tutti quegli stendardi rossi, sotto il sole cocente, arsura divorante, mi sembrava una di quelle processioni che si facevano una volta, per implorare la pioggia ad un cielo di fuoco che pareva incenerisse perfino le invocazioni e la preghiera. Sentivo nell'an-goscia dell'anima traboccare un immenso senso di pietà. Come una tenerezza infinita, penosissima e mi dilatava l'accoglienza interiore, come un grembo materno misterioso, per ricevere e vivere tutto il travaglio di un'umanità sempre, eternamente, nelle doglie angosciosissime e spesso disperate, di un nascere che non nasce mai, che non nascerà assolutamente, nonostante tutto l'infinito amore effuso e le speranze tenaci di un mondo diverso, nuovo.
E pensavo e penso nei momenti in cui cielo e terra si confondono in quell'unica realtà di mistero rivelante di dove unicamente la novità può sorgere e nascere, pensavo che la mia angoscia era appena un segno, un riflesso, un'eco lontanissima, di quell'angoscia (è parola significativa di Amore) dilagante nel cuore di Dio. La fatica di una creazione (realtà che è assolutamente soltanto rivelazione e offerta di Amore, di Amore costitutivo dell'Essere di Dio) che da un tempo inimmagi-nabile, non riesce a trovare la sua identità nell'essere ciò che deve essere e cioè opera di Dio, segno di Dio, manifestazione di Amore, di Bontà, realtà glorificante Chi è perfezione Infinita, questa fatica la sento personale fatica di lui, di Dio. E avverto una onnipotenza impotente, un'attualità sempre in attesa, una presenza costretta, imprigionata, oppressa.
Allora mi succede, e la sofferenza è indicibile, di avvertire, di sentire che questo mondo è ne-mico, che l'umanità è una smentita implacabile. Sento la spietatezza sopraffare la pietà come la disumanità l'umanità e in una più affondata percezione del tremendo problema, vedo e la visione è esperienza concreta, vedo l'ostilità, lo scontro, la guerra dell'umanità contro Dio. La fatica spa-ventosa esasperata, implacabile dell'umanità eternamente impegnata nella respinta di Dio.
Le due fatiche opposte e irriducibili, senza possibilità di scendere a patti e trovare accordi, è la spiegazione della storia, è l'anima che determina, provoca e svolge la vicenda che segna di orrori, sempre più orrendi, il cammino dell'umanità. Perché la terra e il tempo, realtà dove la fatica di Dio alla ricerca di una terra che nel tempo ottenga e sia risposta perfetta al suo progetto di creazione, sono pure realtà, questa terra e il tempo, dove l'uomo, l'umanità affronta e soffre, trabocca di lacrime e sangue, la disperante fatica di creare un mondo, di costruire una vita secondo le ragioni, i criteri, "le leggi" che gli uomini escogitano, impongono e alle quali ciecamente si affidano.
Vedo questa misteriosa, nascosta e rivelata, fatica di Dio. Fin dal primo giorno la vedo. E la vedo e l'adoro nel suo esprimersi totale e perfetto, fin oltre le misure del possibile, quando questa fatica ha preso il nome di Gesù Cristo e in Lui si è fatta fatica storica, personale, fino alle misure estreme della Croce.
E sono duemila anni. E tutto sembra, ma le apparenze nascondono appena la realtà che è cru-dele, violenta, spietata, tutto fa pensare che la fatica di Dio nella ricerca affannosa che tutto sia Amore, sia caduta a vuoto e attualmente sia sull'orlo dell'abisso dell'inutile.
Perché la fatica dell'uomo e dell'umanità (ma umanità qui vuoi dire ragione economica, pubblica e privata, questa crea il potere e i gruppi di potere politico, di qui nascono i regimi militari e i potenziali bellici, il tutto coperto e mascherato da ideologie sempre assurde e disumane, impazzimenti di personaggi, nazionalismi di popoli, orgogli privati e collettivi ecc.) questa fatica dell'umanità continua sulla strada di sempre e questo suo camminare nell'orrore progredisce, va avanti, sta entrando negli spazi della maledizione e della perdizione suprema.
Stranamente e per chissà quale sensazione come di anima e corpo dell'universo e della sua storia sentivo, nel camminare sulla strada, scomparso, inesistente, fra la folla di operai vociante quello slogan e, a tratti il fischiare stridente, mi assordava, sentivo salire dal più profondo della mia angoscia ma non era soltanto la mia, ma la disperazione del mondo, l'implorazione alla pietà. Non so bene chiarire a quale pietà, forse quella sospesa fra cielo e terra, o a quella che vola rasente sulla vicenda della storia e non riesce a entrare. Pietà come chiedere un po' di pioggia sull'arsione esasperata del deserto. Una goccia di rugiada sulla foglia dell'albero. Un accenno di sorriso di Amore sulla rabbia, sull'odio imperversante...
Ma poi mi palpitava nel cuore come un accenno timido eppure fiducioso, la dolcezza di un ri-cordare come a Chi lo potesse avere dimenticato, ma non può dimenticarlo, lo so bene, perché conosco il suo Amore: "Signore, questi tuoi figli...".
Questi tuoi figli. Vi penso sempre e mi si esprimono nell'anima queste parole, ogni volta che vedo folle radunate, moltitudini a gridare, uomini e donne agitarsi, l'assurdità comandata, esaltante, le innumerevoli occasioni di pazzia collettiva, ogni volta che viene in mente il gregge, il branco, la ressa, il trionfalismo, la violenza del plagio collettivo, il culto della personalità, ogni e qualsiasi forma e realtà d'idolatria, gente da piedistallo al monumento, vanificazione della persona nel mar morto della strumentalizzazione popolare, ogni delega di popolo, ogni speranza affidata ad un uomo, questa eterna e inguaribile "maledizione dell'uomo che confida nell'uomo"...
Allora le parole come battito di Amore, richiamo all'inesauribile sorgente, alito di un respiro d'aria mattutina, dolcissima fiducia, audace sicurezza, presso quel Cuore che è di Padre: "Signore, questi tuoi figli".


don Sirio


in Lotta come Amore: LcA settembre 1982, Settembre 1982

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