"Dov'è il tuo Dio?" (Sal 41)
È una parola che fa paura. Apre davanti come uno spazio sterminato, a perdita d'occhio, senza una pietra dove appoggiarsi, un albero alla cui ombra riposare. Intorno, lontanissimo e irraggiungibile, l'orizzonte sfocato, abbacinante. Il deserto. Niente e nessuno all'infuori del povero se stesso, dimensionato di nullità, spogliato di ogni evidenza, abbandonato perfino dalla propria ombra...
Come il deserto geografico, anche il deserto del vivere umano è sempre più in movimento di espansione per la progressiva corrosione dei valori umani, la terra buona dove l'umano è coltivabile.
Ognuno di noi "sente" questa sabbia riarsa penetrare anche negli angoli più riposti del cuore, dell'anima a disseccare la speranza, a bruciare l'erba verde della fiducia e consumare l'ultima acqua del coraggio.
Sta il fatto che il problema, fra i tantissimi, che più affligge e affoga il vivere umano, in questo nostro stranissimo tempo, è la solitudine, la sensazione, anche fisica, del deserto e tanto più nell'anima, questa realtà misteriosa e invisibile eppure assetatissima, fino all'ansia disperata, della goccia d'acqua. Una solitudine spesso che a voltar gli occhi intorno fa vedere soltanto il vuoto, il niente, non una presenza che risponda, un appiglio a cui aggrapparsi e tanto meno una mano concava anche soltanto segno di una disponibilità a ricevere: perché spesso poter dare è già ricevere.
Il vuoto dentro, fin nel più recondito dal se stessi e nella coscienza di se, negli spazi della propria interiorità, fino alla rarefazione dei pensieri, all'inanità dei sentimenti. Dilaga il buio e tutto ottenebra fino all'impossibilità, all'assurdità anche del più piccolo schiarore di luce del più tenue barlume di ottimismo.
È vuoto all'esterno, intorno. Terra bruciata, incupita di cenere. Accumulo di macerie di distruzione coperte di abbandono. Giudizio negativo sempre, implacabilmente, spietatamente. Non si salva nessuno all'infuori della propria amarezza. Senso di solitudine, come imprigionamento nel se stessi a soffocazione, nel brevissimo spazio dove stanno appena i piedi a reggere un accar-tocciamento raggomitolato. Misure estreme di solitudine e sono amarezza totale, disperazione. Con dentro l'inanità della ribellione, della rabbia inutile. Solitudine nascosta, silenziosa , oppressa e vinta, a resa incondizionata.
Questa solitudine è più vasta degli oceani e dei deserti che coprono l'orbe terracqueo.
Forse ogni uomo e donna è una solitudine.
Non è vero che nessun uomo è un 'isola, è uno scoglio sbattuto dalle onde del mare e dai venti della solitudine.
Impedisce la coscienza della solitudine, l'averne esperienza e quindi il consentirvi e l'accettarla e abbandonarvisi, la distrazione, l'illusione e cioè la stupidità. Perché l'evasione non distrugge il carcere alle spalle non ne cancella l'esperienza, come ogni volontà o tentativo di respingere la morte, non ne toglie via il destino.
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Il giudizio nei confronti della solitudine è assolutamente negativo: la solitudine è forse la sciagura più amara che può capitare a una persona, uomo o donna che sia. Mi permetto di non essere d'accordo e di affermare che c'è una dignità, fra le tante, nella ricerca di valorizzazione della vita umana, particolarmente disattesa, quella della solitudine.
Riprendere questa realtà connaturata all'anima umana e che il nostro tempo, in misure impressionanti, ha liberato dall'oppressione dei mezzi di comunicazione di massa, dalla facilità meccanizzata del muoversi, dell'incontrarsi, dalla socializzazione consumistica del vivere insieme, manifestandone allo scoperto la drammaticità e l'insopportazione ormai alle corde del patologico, riprendere questa condizione del vivere umano che è la solitudine, riscoprendone i valori e provocandone la creatività, è senza dubbio lavoro di profondo interesse umano.
Sempre più e irreversibilmente il nostro tempo (questi ultimi cinquant'anni) ha scavato sotto i piedi dell'umanità ( e ancora di più, spaventosamente, sotto i piedi del primo e secondo mondo) dei vuoti, delle voragini, degli abissi capaci d'inghiottire e seppellire perfino l'esistenza. Certamente in questo nostro concreto storico, sono stati affondati dei vuoti che hanno risucchiato e fatto sparire la serenità, la disponibilità all'attesa, l'insufficienza del se stesso e il bisogno dell'altro, il sapersi contentare, il rispetto, la collaborazione, la felicità per le piccole cose ecc.
Non è possibile riempire questi vuoti, colmarli, perché ogni tentativo di soddisfacimento, si risolve nello scavare un vuoto maggiore. Il consumismo, la tecnologia e quindi la pubblicità, conoscono molto bene questa disgrazia storica: la creazione dei bisogni è impulso produttivo, creativo di nuovi bisogni. E il fermarsi o deviare dalla corsa produttivo-consumistica, è ormai impossibile.
O arrendersi, lasciandosi portare dall'acqua del fiume o tentare di accettare la sciagura scoprendo e raccogliendo nella perdizione possibilità di salvezza .
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Forse è su questa strada di "redenzione" che la misericordia di Dio può giocare speranze di salvezza. Sta il fatto e a questo punto diventa un'esemplificazione, che la solitudine, risultanza di svuotamento di valori umani, terra bruciata di realtà di rapporti, di comunicabilità, di comportamenti vicendevoli, può e deve essere recuperata come valore qualificante la persona, costruzione del se stessi, liberazione della passività, dalla dipendenza, da vera e propria schiavitù e quindi solitudine equivalenza di compiutezza del proprio io, spazio indispensabile alla creatività e al muoversi personale, scoperta e utilizzazione di risorse nascoste, seppellite, da vivere nella gioia di significare qualcosa, di offrire intorno. Occhi che vedono, cuore che palpita, mani che offrono, sicurezza di anima che accoglie, silenzio che parla... una solitudine abitata, fiorita, luminosa. Cioè una solitudine che non è più una solitudine, ma semplicemente la solitudine.
E cioè lo spazio aperto, senza muri di difesa, fili spinati, confini e nemmeno orizzonti. La condizione perfetta della libertà dove non c'è assolutamente niente da difendere perché niente da perdere. Vivere senza timori e paure, apprensioni, angosce, è la solitudine che non aspetta niente, non pretende, ma anche non dipende. Può accogliere tutto e tutti perché nemmeno un centimetro quadrato è occupato, ipotecato, possesso in esclusiva. Ma perché è accoglienza aperta, disponibile, pronta, può serenamente anche non accogliere niente in forza di questa apertura e disponibilità e libertà.
Una solitudine che sa e vuole essere solitudine.
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Forse è ancora da scoprire quanto la solitudine è componente costitutiva dell'essenzialità più profonda della natura umana. Può essere che l'esatta identità dell'uomo sia riscontrabile nella sua solitudine, nella misura in cui riconosce, accetta e valorizza il suo se stesso, rifacendosi unicamente al proprio io. Forse sarebbe importante ritornare alla propria origine, risalire il fiume a ritrovare la sorgente e conoscere la limpidezza, la freschezza della propria acqua. Perché conosciamo di noi la complessità, i derivati, gli impasti, via via sempre più artificiali e compositi, ma l'originale, l'identità autentica, la verginità della nostra immagine, non la conosciamo.
Semplicemente perché non abbiamo accettato la solitudine, premurandoci con ogni cura, anche a rischio di qualsiasi disperazione, di cercare al di fuori di noi non solo il completamento, ma spesso la sostituzione o almeno il surrogato di noi stessi. Vivere spesso è mendicare. Fino a bussare disperatamente anche quando la porta si ostina a rimanere chiusa. Allora è proprio la solitudine. Ma non è vero, quella non è solitudine è disperazione, cioè il vuoto, il senza senso, l'abisso senza fondo. La solitudine non è sconfitta, fallimento, può essere preziosa provocazione a ritrovare il se stesso e cominciare finalmente a vivere non d'accattonaggio ma con il lavoro delle proprie mani e col sudore della fronte.
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Forse sono riuscito a capire, almeno mi sembra, l'importanza, il valore biblico della solitudine. Il deserto è veramente il luogo dove Dio vive allo scoperto, senza veli a coprire il suo mi-stero, senza indicazioni e segni a precisarne la realtà, la presenza. Chi è tutto e Dio è tutto, la totalità, non ha bisogno di niente per manifestarsi .anzi qualsiasi cosa, anche stupenda, meravigliosa, lo precisa, lo circoscrive, lo condiziona e allora è meno Dio. Dio: spaziosità totale, illimitato assoluto, reale presenza e al di là incessante, in nessun luogo e in ogni luogo, infinitamente oltre... Ma il suo nome più vero è forse solitudine. Tant'è vero che la creazione dell'universo e la sua esistenza, non ha abitato e non occupa minimamente la solitudine di Dio. Anche la sua realtà trinitaria non modifica la sua solitudine: l'Essere di Dio è Uno, l'unico e cioè perfetta, assoluta solitudine.
La creatura umana è uscita, da questa solitudine, e ne porta l'immagine, la somiglianza, un destino e un'esistenza misteriosa, un richiamo irresistibile.
La solitudine chiama solitudine... Una visione seria e limpida di Fede dovrebbe rivelarci che la solitudine che spesso dilaga nel cuore, nello spirito e perfino nel fisico, è mistero scavato nella condizione umana dall'essere nati dalla solitudine di Dio; dal portarne il segno indistruttibile nell'anima e quindi dall'esserne implacabilmente richiamati, come misteriosamente risucchiati.
La risposta più profonda che la creatura umana può e deve dare a Dio è offrirgli un luogo do-ve Dio possa essere Dio o almeno più totalmente che sia possibile e questo luogo è la solitudine, il deserto dove la distesa è a perdita d'occhio, niente si erge a interrompere a occupare, a distrarre. Nessuna voce o richiamo attira l'attenzione, il silenzio tutto avvolge e ricolma della sua unica voce.
Non è possibile questa solitudine, è vero. Ma è come verità, giustizia, amore, libertà, felicità... non esistono nella purezza perfetta, nella realtà concreta della vita nelle misure della totalità: eppure questi valori li cerchiamo instancabilmente e non ci bastano misure limitate.
La solitudine è uno di questi valori, anzi è la terra buona, fertile per la loro fioritura e fruttificazione.
Bisognerebbe se non altro soffrirne impossibilità di solitudine, provarne angoscia e sgomento per il suo essere sopraffatta. E desiderarlo uno spazio di solitudine, un momento del suo silenzio, un accenno della sua pace per esperimentare almeno la sua affascinante misteriosità.
Ma più che tutto, quando per le vicende della vita e non sempre sono strane, assurde, viene scavata intorno alla solitudine e il vuoto si fa nel cuore, dilaga l'anima, deserto arido e sterminato e tutto è solitudine e disperazione, allora bisognerebbe lasciar cadere la disperazione, il ribellarsi, l'amarezza che affoga e abbandonarsi serenamente alla solitudine, scoprirne il fascino e lasciarsi costruire il deserto.
Perché può essere che da quella solitudine stia nascendo il vero noi stessi. Cioè la felicità.
don Sirio
in Lotta come Amore: LcA dicembre 1982, Dicembre 1982
Luigi Sonnenfeld
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