Nei giorni delle ferie la lettura dei giornali è una "occupazione" tradizionale.
Anch' io non sfuggo alla regola e ne approfitto per una lettura più attenta e soprattutto "quotidiana". Così avverto maggiormente la differenza di peso tra la notizia che luccica un attimo anche sulle prime pagine e l'insistenza su temi analizzati dalle più diverse angolazioni che rimbalzano come per un dibattito tra le diverse testate.
Mi sono letto e riletto - ah! la magia del tempo "inutile" che scorre sonnacchioso e lento - le cose più diverse. Mi sono aggiornato sul vivere multiforme di una società misurata in colonne, righe, dimensione di carattere, maiuscolo e neretto.
Dragaminealtapressionelewiscarcerazionepreventivamuorepuntodaunavespadollarogiovanipaolomoserlavapiùbianco! ... O no?
Porgo le mie scuse per essere stato ancora più sciocco del solito, ma sono imbarazzato per il fatto di voler scrivere su un argomento non so quanto centrato e su cui vorrei avere idee più chiare di queste quattro povere riflessioni che sto per fare. Ho letto sui giornali di agosto - il punto di partenza è quindi costituito dai quotidiani di cui sopra - il divampare della polemica sulla nuova legge sui termini di carcerazione preventiva ed insieme il riaprirsi del discorso sulla vitalità del nuovo terroris-mo, l'imbarazzante problema dei pentiti, le figure dei dissociati, il fronte della fermezza, l'azione riconciliatrice di uomini di Chiesa del calibro del cardinale Martini e del vescovo Riboldi.
Ho avvertito la tensione di un discorso che penetra a fondo nel cuore di questa nostra società italiana là dove uomini di buona volontà tentano di ricostruire un quadro di più autentica giustizia e di possibilità di recupero di ogni dimensione vitale terminata a vicolo cieco.
Credo che esperienze di perdono e di riconciliazione costituiscono le deboli, ma valide tracce di una strada ancora tutta da costruire.
Mi chiedo con quali energie. Mi chiedo soprattutto se le energie liberate dal perdono possono di nuovo essere poste al servizio di un progetto utopico negli anni immediatamente futuri.
Con quali energie perché il fenomeno del pentito, del dissociato, non è ristretto ai soli terroristi. È usato ormai nel linguaggio comune, ma ancora di più può essere usato per indicare coloro (e sono tanti!) che hanno avuto parte attiva negli anni ruggenti della contestazione, che con il terrorismo emergente hanno avuto collusioni sensibili se non altro nel linguaggio, nella definizione degli obiettivi, nell'uso di analisi spietatamente semplificate nei termini del buono/cattivo, nell'assenso fideistico a slogan e manifestazioni.
Dissociati dagli obiettivi di un cambiamento decisivo e deciso per sposare obiettivi di razionalizzazione del sistema attuale, confluiti spesso nei partiti della sinistra, non di rado riscoprendo posti di responsabilità ai vari livelli. Pentiti e quindi passati di nuovo dall'altra parte, quella vincente e privilegiata che assegna incarichi e responsabilità sulla base del merito individuale e dell' interesse privato. Meriterebbe cominciare a fare un po' di storia locale (in paesi e città) per vedere l'evoluzione della popolazione nata negli anni '50 per riuscire a stabilire il peso di una generazione che ha attraversato il '68 in gioventù e se ne è resa protagonista. Perché l'impressione che ricavo dagli incontri e dai rapporti che ho con amministratori pubblici, uomini di partito, gente che in qualche modo conta e decide ai diversi livelli e che appartiene a questa fascia di età è deprimente in rapporto al problema di partenza: alla possibilità, cioè, di una rigenerazione del tessuto sociale del nostro paese che non passi attraverso una politica di potatura e sradicamento, ma attra-verso una vera opera di riconciliazione e di "perdono" (donare ancora). Gente brava, con la testa sulle spalle, quella di cui sopra, a puntellare con onestà e vigore questo nostro stato e sistema, con profonda ansia riformista verso una maggiore giustizia. E dico questo senza ironia perché spesso, se non sempre, è così. Ma esiste in loro come una rimozione del sogno politico di una autentica "diversità". E l'ubriacatura giovanile di una nuova umanità, di un nuovo potere è chiusa nel cassetto delle esperienze a vicolo cieco, delle strade che finiscono di contro a un muro. Mi chiedo allora come può un popolo che ha abdicato alla radicalità per sostituirla totalmente, come ingrediente necessario delle grandi e feconde rotture storiche, con l'equilibrio della razionalità e la bilancina del "senso del reale", come può un popolo avere il coraggio di guardare dentro di se e trovare la forza di esprimere e ricevere un autentico perdono?
E le deboli tracce della nuova forza di perdonare che sembra attraversare il tragico mondo del terrorismo, possono far sperare in una spinta alla riconciliazione collettiva per un progetto sociale più impegnativo? A questa grossa seconda domanda or non so davvero rispondere se non esprimendo un ulteriore interrogativo. E riguarda l'incertezza sulla consapevolezza che il "perdono" nei fatti di terrorismo come nella restituzione alle energie popolari e soprattutto giovanili della necessaria radicalità, non si gioca soltanto tra violentatore e violentato, ma anche con la costituzione come "parte civile" della massa di gente stritolata nelle proprie aspirazioni, nel sogno collettivo di una vita più umana. Tanti giovani che si sono suicidati incapaci di resistere in vita in una realtà disegnata dalle grigie sbarre dell'"unità nazionale", tanti che si sono lasciati morire nel cuore senza il nutrimento di una speranza collettiva. Nella lotta sociale e politica di questi ultimi vent' anni ci sono morti (e sono soprattutto giovani di vent'anni come in tante, troppe guerre: un terribile salasso che le società umane sembrano quasi cinicamente volere come "mai maledetto" controllo delle nascite) che pesano sulla coscienza collettiva e non sono raccolti né nominati perché appartengono a tutti gli schieramenti e non fanno bandiera. Solo se li faremo risorgere in una rinnovata speranza ideale, nella radicalità della vita che vuole rinnovarsi, avremo la forza di ricostruire un tessuto sociale intrecciato da solidarietà e autentica partecipazione politica.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1984, Ottobre 1984
Luigi Sonnenfeld
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