La posta di Fratel Arturo

Cari amici,
partendo dall'Italia mi sento nell'obbligo di lasciarvi una relazione anche se breve, di questo soggiorno. Inutile dirvi che i giorni mi sono volati, anche perché, correndo incessantemente dal Piemonte alla Calabria, alla Sicilia, non ho permesso al tempo di sfare la valigia per stendere sul tavolo tutti i suoi campionari. I miei interventi sono stati sollecitati dalla voglia che io soddisfacessi due esigenze: la prima quella di voler sapere qualcosa di più sulla teologia della liberazione, l'altra di chiedermi un rifornimento di speranza.
Penso che la curiosità teologica così diffusa, nasconda un progetto dello Spirito santo per svegliare il laicato che considera la teologia un piatto della cucina clericale. Credo sia apparso chiaro a tutti che dietro la disputa sulla teologia della liberazione, si nascondono i poveri, il loro dramma e la loro aspirazione. Ho ragione di credere che il risultato di questa curiosità teologica sarà quello che ha sintetizzato con parole chiare uno scrittore uruguayano a me caro Mario Benedetti. Vi voglio citare le parole che chiudono un suo articolo apparso in una rivista spagnola: "Tutto un continente crocifisso dal nord opulento svuotato dagli ierofanti della banca internazionale appoggia questi nuovi "Galilei" che per la prima volta ottengono che i non religiosi, i non cattolici, gli atei, ci sentiamo chiamati in causa e convocati a un progetto di vita degna, liberata. Gesù di Nazaret ha portato un messaggio di giustizia, una proposta di rispetto dell'uomo e della donna, una decisione solidale con i poveri del mondo, tratti fondamentali che non sono proprietà privata della chiesa. La figura e la trascendenza umane di Gesù appartengono all'umanità. In un certo modo con la sua apertura e il suo inserimento nel popolo, la teologia della liberazione ha espropriato simbolicamente Gesù non per toglierlo a un gruppo particolare di fedeli, ma per offrirlo a tutto il popolo". Confido che la Gerarchia non abbia paura di questo interesse teologico che sta fermentando una massa spesso amorfa. Noi italiani passiamo per essere uno dei popoli più religiosi e più indifferente di tutta la cristianità. La causa del nostro scetticismo o cinismo religioso è attribuita alla nostra prossimità geografica con Roma. Non mi prenderei questa responsabilità, ma devo confessare che mi ha sostenuto in questo spazio di tempo italiano che avevo progettato come uno spazio di riposo, la certezza che molti laici che mi sembravano in un tempo di letargo anche se impegnatissimi in espressioni religiose che liberano dal pensare, se è vero che il pensiero è strutturalmente critico, si sono destati e cominciano a vedere che la fede ha molto che vedere con la storia che viviamo che non è certamente allegra.
Più difficile che parlare di teologia è infondere speranza, e forse qualche po' di speranza sono riuscito a trasmettere. Me ne accorgo dal male che mi ha fatto la sofferenza di tanti giovani che ho incontrato e che implicitamente o esplicitamente mi hanno chiesto di aiutarli a sperare. Questi giovani vivono in una società squilibrata; ho avuto la precisa impressione che siano membri di una famiglia che ha avuto un passato opulento di beni economici, di fatti reputati gloriosi, di personaggi che, come direbbe Dante, "suonavano" nella vita quotidiana di molte città. Ora questa famiglia pare preoccupata unicamente di nascondere il suo inevitabile declino sotto splendide iniziative, tagliate da quella vita e da quella storia che è all'origine di questa fastosità. Una famiglia insomma che ha il programma di dar dignità alla morte piuttosto che di aprire le porte ai giovani che devono cercare l'inedito, il nuovo, la vita che è proiezione nel tempo che viene. Scelgo come simbolo di quello che voglio dire Firenze, dove ho visto le strade attraversate da striscioni recanti inviti a mostre di tutti i generi e per tutti gusti. Non sono nemico di queste iniziative, ma vi ho letto, e non so perché, la preoccupazione isterica di questa famiglia antica di nascondere la sua lussuosa fine.
Forse il leggere questi simboli con questo taglio mi viene dal costatare che i cosiddetti grandi della politica dell'aristocrazia, e della cultura entrano nei celebri teatri dove si svolgono dei fatti definiti culturali con uno sfoggio illimitato, lasciando senza risposta i giovani che devono rispondere alla sfida del tempo. Insomma mi pare di aver capito che quasi la totalità delle energie è spesa a imbalsamare con tutti i segreti dell'arte, il cadavere del tempo che abbiamo in casa, piuttosto che a dar coraggio e spronare alla fatica dell'allenamento quelli che devono accettare la sfida del tempo e rispondere alle sue provocazioni. Ho ripensato a Dostoiewskj quando preparava il suo viaggio attraverso l'Europa per visitare i "morti illustri" e ho sentito questo acre sapore di morte. So che non è facile infondere speranza; ma quel poco che ho potuto infondere mi viene dalla solidarietà con quelli che non hanno nessuna sicurezza e che sono stati abituati dalle vicende della vita a "sperare contro ogni speranza"; così ho potuto dire ai giovani che la speranza è il termine dialettico che nasce sempre in qualunque caso dalla sua negazione.
Sotto le pesanti tappezzerie di porpora e d'oro c'è il cadavere della speranza. Quella che rinasce continuamente ed è esternamente giovane è quella che nasce dalla sua negazione; ce lo ha insegnato Hegel, e prima di lui ce lo aveva detto san Paolo che parla di una speranza contro ogni speranza, che vuol dire una speranza che rinasce sempre dalla morte della speranza, a condizione di non imbalsamare il cadavere, ma di lasciarlo al sole sapendo che dalla putredine nasce la vita. Non è facile, perché bisogna che ci siano le circostanze storiche che negano la speranza e che non ci siano delle ricchezze per ricoprirla.
Le negazioni della speranza non mancano in Italia; ne abbiamo scoperte parecchie nei dialoghi con i giovani, la disoccupazione, l'invasione imperiale delle nostre terre con le armi, con l'economia, con i modelli di vita che hanno il fascino di potersi riprodurre con poche spese, la disparità sociale che sparisce sotto l'ipocrita uguaglianza della democrazia, e tanti altri guai di cui i giovani sono lucidamente coscienti. Bisogna fissare lo sguardo coraggiosamente su queste negazioni della speranza perché sia esse ed esse sole nascondono la speranza. Dobbiamo fare una conversione che sia veramente un cambiamento rivoluzionario di ruoli: da minacciati dobbiamo trasformarci in minacciatori. Ho scoperto, e mi ci sono voluti degli anni, che i poveri nascondono sotto la loro mitezza, il loro curvare la schiena davanti al potere, una energia indomabile; a loro è stato affidato il segreto che Gesù ha fatto il senso della storia, di sconfiggere la morte. La solidarietà con loro è il segreto per partecipare di questa debolezza che è la forza che vince il mondo. Ho cercato di insegnare ai giovani e chiedo scusa di questo termine insegnare, a rifiutare tutte le attrazioni culturali, economiche religiose che ci tagliano fuori dalla storia concreta quella che si combatte nella realtà mondana. Tutte le battaglie "ideali" o ideologiche o metafisiche o religiose, sono portatrici di delusione tanto più vicine quanto più urgente è la sfida che ci viene dalla realtà vuota di umano e di storia. Se i grandi fatti umani come la povertà l'ingiustizia, la prepotenza politica ed economica si presentano senza soluzione possibile, questo deve voler dire per noi che rinchiudono in se l'antitesi della speranza, la sua negazione, e quindi che non possiamo passare oltre.
Quelli che sfidano il mondo e le sue contraddizioni col denaro, col potere economico e politico sono condannati a morte col mondo con la non-speranza. È semplicemente ridicolo che i buoni cattolici ripetano con monotonia che violenza produce violenza - e sanno che lo dicono per proteggere i rapinatori - e poi pretendono di opporre ingiustizia ad ingiustizia, quando usano la ricchezza i beni economici, il potere per combattere il potere. Quando i seguaci di Cristo capiranno la lezione di David nudo che vince il Golia armato fino ai denti, del Bambino di Betlemme che espone il suo corpo fragile e nudo allo strapotere dell'impero che lo registra fra i suoi sudditi schiavi? Nel giudicare movimenti ed iniziative che si dichiarano di aiuto alla fede, al rinnovamento della vita e alla creazione di quella speranza che sola può salvare il mondo, non ho dubbi. Dove vedo la pratica di confidare nei beni so che lì non lavora lo Spirito, dove trovo l'esistenza di quei poveri cui Gesù ha promesso la terra e che non hanno in che confidare se non nella speranza nuda che nasce dalla morte del potere, so che quello è il luogo dell'appuntamento con la vita. Vi abbraccio uno ad uno e vi auguro un buon '85.


in Lotta come Amore: LcA febbraio 1985, Febbraio 1985

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