Viareggio, 10/2/,85
Carissimo don Tonino, vescovo di Molfetta,
ho letto su ''ADISTA " del 11 Febbraio '85 la sua bellissima e provocatoria lettera a Massimo, il giovane nomade di 22 anni ucciso la notte dell'8 Gennaio in un conflitto a fuoco con un metronot-te. Le sue parole colme di tenerezza evangelica ed insieme di evangelica denuncia detta terribile indifferenza in cui viviamo nei confronti di coloro che nascono, vivono e muoiono - come Massimo - ai margini dette nostre pigrizie, mi è penetrata come un coltello nell'intimo dell'anima. Prima di tutto perché da diversi anni mi sono trovato coinvolto personalmente in situazioni di emarginazione e di abbandono e ho toccato con mano quanto sia difficile e faticoso condividere il cammino dei poveri e degli sventurati. In secondo luogo perché è motivo di speranza e di coraggio una lettera come la sua, nata del suo cuore di cristiano e di vescovo, che testimonia con chiarezza la responsabilità comune di fronte all'ingiustizia e all'emarginazione dei più deboli e ci spinge a sentire "carne della nostra carne" ogni creatura colpita dalla sventura. Le sue parole dolcissime ed insieme amare come il fiele sono un pungolo per tutti, perché non ci laviamo tranquillamente le mani - come Pilato - di fronte alla violenza e alla sopraffazione della nostra vita sociale dicendo: "io non c'entro!"
C'è una cosa, però, netta sua lettera che mi ha riproposto violentemente una domanda che da tanti anni mi porto nell'anima e che si ripresenta puntualmente ogni volta che succedono fatti come quello di Massimo. Ho sentito il desiderio, leggendo e rileggendo le sue parole, di proporle questa mia domanda e di farla diventare - se possibile - occasione di dialogo e magari di profonda conversione all'interno della comunità cristiana. Prima di formularla, però, voglio precisare che non mi riferisco affatto al metronotte di Molfetta, rimasto ferito e al quale auguro di cuore di poter ritornare sano e salvo nella sua famiglia, a vivere in pace con la sua sposa e i suoi dieci figli. Al quale vorrei anche poter augurare altrettanto di cuore di riuscire a trovare un altro lavoro, per guadagnarsi il pane per sé e per i suoi senza una pistola in mano. Perché la mia domanda nasce proprio da questo particolare e vorrebbe interpellare la coscienza cristiana perché venga fuori una risposta che sia capace di metterei tutti su una strada di cambiamento e di conversione evangelica. PUÒ UN CRISTIANO GUADAGNARSI DA VIVERE CON LE ARMI IN PUGNO? Anche nella mia città ci sono i metronotte, i vigili urbani, i poliziotti, i carabinieri, le guardie delle banche; ne incontro sempre qualcuno andando ogni mattina al lavoro nella zona del porto. Ed anche nella mia città - come in tutte le città del mondo - sono accaduti fatti dolorosi e angoscianti come quello di Molfetta.
La nostra coscienza cristiana rifiuta giustamente la violenza armata dei rapinatori, dei banditi, dei ladri di ogni genere. Ma accetta come giusta e "doverosa" la violenza armata di chi "difende" la legge, la proprietà, la vita. La nostra coscienza cristiana - nella maggioranza credo - consideri "onesto" il lavoro di chi a rischio detta propria vita difende l'ordine e la legalità. Credo che nessun buon cristiano e neppure nessun vescovo si "scandalizzi" di veder partecipare all'Eucarestia una guardia bancaria o carceraria, un poliziotto o un carabiniere, che magari poco dopo - perché questo è il suo lavoro e il suo dovere - si può trovare costretto a sparare e ad uccidere.
Da tanti anni leggo il Vangelo di Gesù e lo confronto con questa nostra secolare "coscienza cristiana" riguardo atta violenza legalizzata e rispettata e sempre più mi cresce la convinzione - e anche l'angoscia - che di "cristiano" in questa nostra coscienza non ci sia proprio niente.
Ma che, anzi, da questo punto di vista, siamo rimasti all'antica legge del "occhio per occhio, dente per dente", come fu sempre detto ed insegnato dai tempi dei tempi. Non è forse giunto il tempo di rileggere col cuore aperto il Vangelo di Gesù e lasciarci toccare il cuore, perché non sia più un cuore di pietra, ma un cuore di carne? Non è forse giunto il tempo, in questi nostri amari anni di piombo, di proclamare con chiarezza la Parola di Gesù, perché almeno le mani dei credenti nel Cristo crocefisso non si sporchino più di sangue fraterno, come le mani dei soldati romani sotto la croce del Signore? Loro furono perdonati "perché non sapevano quello che facevano"; potrà essere altrettanto per noi, dopo quasi 2000 anni di convivenza con il Vangelo di Gesù?
La morte di Massimo e la sua bruciante lettera mi hanno riconfermato dolorosamente, ma anche con tanta chiarezza, nella risposta che io sono sicuro di avere già trovato per me. Vorrei però che essa potesse diventare anche la risposta e l'annuncio dell'intera comunità della Chiesa di Gesù Cristo.
Con affetto fraterno e riconoscenza
don Beppe
Ho pensato di offrire agli amici alcune riflessioni nate dalla lettura di una lettera pubblicata da "ADISTA" di mons. Tonino Bello, vescovo di Molfetta, al quale ho voluto scrivere perché mi sembrava importante riuscire ad allargare "nella Chiesa" l'accoglienza dello spirito di amore, di nonviolenza, di rifiuto della "giustizia vendicativa" che sono senza dubbio la base della Riconciliazione cristiana. La lettera del vescovo di Molfetta riguarda la morte violenta di un nomade di 22 anni sorpreso "con una spregevole refurtiva fra le mani" ucciso in una sparatoria con un metronotte: è una lettera piena di amore, di tenerezza per una creatura travolta dalla miseria; ed insieme è un atto di accusa all'indifferenza nella quale vivono e muoiono tutti gli "emarginati" della terra. "Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevamo ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l'icona di Cristo nel cuore di ogni uomo".
A me, questa lettera ha riproposto ancora una volta un "vecchio interrogativo" al quale credo sarebbe urgente trovare una risposta proprio in questo tempo in cui la Chiesa italiana si propone di affrontare il problema della Riconciliazione. La nostra epoca è senza dubbio segnata dalla crescita spaventosa dei mezzi di violenza e di morte; la "filosofia" della difesa armata a tutti i livelli appare come sempre più dominante: non potrebbe essere un segno di "riconciliazione" con la chiara parola del Vangelo la rottura di tutti i legami religiosi col mondo della violenza armata, anche di quella legalizzata e benedetta? Riconciliazione quindi come dichiarazione della fine di una "coscienza morale" durata parecchi secoli a sostegno di un vivere sociale fondato sulla ragione del più forte; ed allo stesso tempo come accoglienza coraggiosa e limpida del messaggio evangelico che chiede ai discepoli del Signore Gesù di "fare due miglia di strada con chi pretende di farne uno".
Come esempio concreto e "fresco" della necessità e dell'urgenza di affrontare nella Chiesa una seria "riconciliazione" con la Parola di Gesù, ho trovato sempre su "ADISTA" del 20 Marzo '85 la notizia di una recentissima dichiarazione di mons. Bonicelli attuale vescovo ordinario militare per !'Italia riguardo al commercio delle armi. In sostanza il vescovo di tutte le caserme dell'esercito italiano dichiara che il diritto alla difesa giustifica il commercio delle armi: "Se ho il diritto - dovere di difendermi, avrò anche quello di fornirmi degli strumenti. necessari. "Mons, Bonicelli prosegue poi su questa linea molto "possibilistica'' a proposito del ruolo dell'Italia nella vendita di armi (abbiamo solo il quarto posto tra i paesi esportatori) mentre "Usa e Urss si dividono quasi in toto la torta".
Ricordando poi (giustamente) che la nostra Costituzione rifiuta la guerra come strumento per risolvere le controversie, il vescovo afferma che "bisogna smettere di pensare e di dire che i militari sono per la guerra e gli obiettori per la pace".
Non è che mi sia meravigliato di questo modo disinvolto di tentare di liquidare un problema così tragico e angosciante che viene rovesciato sulle spalle dell'umanità in termini di paura, di distruzione, di fiumi di sangue, l anche se sentirlo così esplicito dalla bocca di un vescovo cristiano non può lasciare indifferenti. le affermazioni di mons. Bonicelli sembrano piuttosto sicura propaganda di uno zelante commesso viaggiatore dell'industria militare: come dire ai "mercanti di cannoni" di stare tranquilli perché le esigenze della "difesa" richiedono un mercato ben attrezzato.
Ancora una volta, mi pare chiaro che sia urgente allargare la riflessione e l'impegno perché la Chiesa del Signore Gesù sia liberata a tutti i livelli dalla falsa "cultura di pace" di cui anche mons. Bonicelli dimostra di essere un valido "portatore sano".
don Beppe
in Lotta come Amore: LcA aprile 1985, Aprile 1985
Luigi Sonnenfeld
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