Cinquecento anni di silenzio

dedicato a p. Alvaro "fratello mio"

Una delle punizioni frequenti nella vita di seminario - preparazione al sacerdozio - era il silenzio. Dovevi tacere nei rari momenti di libertà di "eloquio"; a passeggio, nella ricreazione, durante i pasti, nel tempo libero dalla lettura tu il punito non potevi parlare, eri in silenzio.
Una persona che non può parlare, che non conta niente, potendolo non deve esprimere ciò che il cuore va significando. Oltre ai superiori maggiori - rettore, vice rettore dei grandi, vice rettore dei piccoli - chi poteva commutare questa pena erano i caporali chiamati prefetti, i soliti lacchè che esistono sotto tutti i cieli delle istituzioni e all'ombra di tutte le bandiere che danno loro ragione di esistere e di comandare. Ho i gradi quindi esisto, quindi comando: e tu devi imparare a tacere in nome o dell'ascetica o della patria o del tuo tornaconto.
Una sottilissima scuola per non essere uomini, ma caporali!
In questo "santo spirito" di laccheismo, di essere più papisti del papa, acceso dal sacro fuoco dello zelo un prete a Popayan (Columbia) per ordine di un vescovo - non si sa quale - ha tolto il microfono a Guillermo Ternorio un indio "paez" piccolo di statura con un cappello di paglia in testa, scalzo. C'erano - in quel venerdì 4 luglio '86 - trecentomila fedeli ad ascoltare il papa in quella spianata di Popayan e tra essi cinquantamila ìndios, appartenenti alle etnie "guambianos" "paeces" e "ingas". "Amatissimo padre, l'America India, in modo speciale le comunità indigene di Colombia e questo popolo che oggi è qui riunito, si rallegrano della sua presenza e presentano un caloroso benvenuto a colui che cammina per il mondo con lo pace di Cristo". Pronuncia a stento lo spagnolo si scusa per questo ed invita il papa che già ha conosciuto la situazione delle comunità indie del Messico, dell'Equador e del Perù a "far si che i suoi messaggi arrivino a tutto il mondo per reclamare il rispetto della dignità dei popoli il superamento delle situazioni di bisogno al di sopra degli interessi economici".
Ricorda l'indio Guillermo che siamo vicini a cinquecento anni dall'arrivo del conquistatore europeo e cristiano nelle terre americane "compiremo cinquecento anni di una storia trascorsa nel silenzio del dolore, del disprezzo, dell'emarginazione, del martirio sconosciuto perché è martirio di indio". Questa storia di lotta, di vita e di morte è stata però illuminata dal risveglio della coscienza della persona umana, nella riappropriazione del patrimonio culturale della civiltà india e delle loro terre: questo cammino di liberazione duro e difficile è però duramente contrastato da coloro che tengono lo terra: il prezzo: "hanno ammazzato indios, compresi donne e bambini: ci hanno incarcerati, hanno militarizzato i nostri territori". Nonostante tutto gli indios hanno mantenuto lo fede in Cristo aiutati da vescovi sacerdoti e laici che hanno visto nelle lotte indigene le sofferenze di Cristo per una vera liberazione e per il diritto a vivere.
"Ma è per questo che sono perseguitati e assassinati alcuni rappresentanti di Cristo in terra come è stato nel caso dell'uccisione dell'unico sacerdote indigeno paez Alvaro Ulcuè Chocuè".
A questo punto il microfono fu tolto bruscamente.
Chi era padre Alvaro Ulcuè? Era nato a Pueblo Nuevo (Cauca) il 6.7.1943 in una casa dal tetto di paglia, le pareti di canna, il focolare per terra con pentole in argilla. La stella di Betlem illuminò tutta la vita di Padre Alvaro: "tutto può essere contro di noi - diceva - però Dio sta sempre dalla parte del povero". Mai ha voluto che il suo sacerdozio richiamasse privilegio "per me essere sacerdote è camminare con i poveri, vivere in mezzo ad essi". Viveva per lo sua gente - Gesù è vissuto unicamente per gli altri -; parlava lo loro stessa lingua, si considerava piccolo, lavorava molto, era un povero di Dio. AI tempo del seminario commentava scherzando: "in seminario eravamo 62 studenti: 59 bianchi impomatati se ne andarono. Dio restò con i poveretti (los malitos): Mina, un negretto, un contadino, e Alvaro un indio.

Solo nella lotta
Padre Alvaro denunciava ed annunziava con l'autenticità e lo forza di un profeta evangelico: non ebbe paura di dire la verità ai grandi e ai potenti. Essere veramente cristiani e preti non vuol dire diventare più intimi, più dediti alla preghiera: vuol dire assumersi con più coraggio il destino dell'umanità intera con il rischio che anche contro di noi gli anziani, i sacerdoti e gli scribi organizzino persecuzioni. Padre Alvaro soleva dire: "non abbiamo paura a dire la verità, essa stessa si incaricherà di liberarci". Lo infastidiva la falsità "dobbiamo essere trasparenti come il vetro". Aveva vinto lo paura; il pericolo e le minacce davano forza ai suoi passi e rinvigorivano lo sua voce. Così scriveva di lui Arturo Paoli nell'ottobre del 1983: "È un miracolo che il piombo non abbia ancora raggiunto questo indio basso e tarchiato, ma la madre di sessant'anni e il padre di settanta sono stati percossi selvaggiamente, una sorella è stata rapita e poi trovata in brandelli su un mucchio di pietre, il fratello è in carcere in attesa di un giudizio che non si celebrerà mai". Solo nella lotta non è il mercenario che fugge quando arriva il lupo ma buon pastore disposto a difendere lo sua gente i suoi fratelli indios fino alla fine. I diritti del povero sono i diritti di Dio. Nella sua voce facevano eco le profezie di Geremia, di Amos, di Giovanni Battista. Gli oltraggi le ingiustizie non impedirono a questo cuore grande di battere per bianchi, indios, morenos anche i nemici, mai dalla sua bocca una parola di odio o di vendetta. Pochi giorni prima di essere assassinato ad una messa per due indios massacrati parlò con forza "questa morte è frutto della violenza. Amiamoci. Si viva il vangelo e questo non succederà più. Chi sa qualche cosa lo dica apertamente non abbia paura. Questo succede perché abbiamo paura!"

Alzate lo testa la liberazione è vicina
Padre Alvaro a lato del suo nome nella propria lingua scriveva: Nasa Pal - sacerdote indigeno -. Sapeva che i suoi fratelli indios si aspettavano molto da lui: "Che posso fare se non essere dalla loro parte? Un giorno o l'altro mi troverete steso in qualche luogo". In Gesù vedeva il liberatore ed insisteva nell'affermare che la liberazione incomincia da se stessi che facciamo tanto male al prossimo "lasciamo il peccato che è ingiustizia, vessazione, violenza, assassinio. Il nostro popolo ha bisogno della nostra azione liberatrice animata dal Vangelo". Nel suo villaggio-parrocchia aveva avviato un programma di evangelizzazione, educazione bilingue, assistenza sanitaria, miglioramento delle case, sviluppo agricolo. leale e sincero con il suo vescovo a cui era molto legato e con il suo popolo: " non vergognatevi di essere indios alzate lo testa. " conformismo non può convivere con gli indio. Lottiamo per uscire dall'attuale situazione di emarginazione".
Alla notizia che il papa avrebbe visitato lo Colombia disse: "Se il papa conoscesse lo grandezza degli indios,la chiesa cambierebbe. Facciamo una campagna affinché il papa venga a visitare e a mettere lo mano sulla testa degli indios della Cordigliera. la chiesa tra i miei indios è viva!" Nell'omelia del 21.10.84, giornata missionaria mondiale dopo aver ricordato madre Laura, una delle grandi donne della Colombia, gioiva per lo teologia della liberazione perché, pur nata in America latina stava mettendo in discussione e in crisi l'Europa cristiana.

Un Paez muore in piedi
Fu ucciso a colpi di pistola il 10 Novembre del 1984 da due poliziotti dei servizi segreti colombiani. Gli assassini l'avevano venduto morto per quattro milioni di lire. Come mandanti, vengono accusati alcuni proprietari terrieri di secondo piano. I veri mandanti sono notoriamente al di sopra di ogni sospetto. Coloro che lo hanno visto cadere sulla Sua Terra insanguinata dicono che ha tentato di rialzarsi pur ferito mortalmente: aveva detto "quando lo morte verrà che non ci incontri mentre riposiamo ma in cammino!"
Quel "cerimoniere" togliendo il microfono voleva di nuovo mettere in silenzio il meraviglioso messaggio di vita e di amore di un povero prete indio e ricacciare nell'oblio una storia di cinquecento anni di dolore, di disprezzo, di emarginazione e di martirio sconosciuto perché martirio di indio. l'irritata reazione di papa Giovanni Paolo II ha permesso a Guillermo Ternorio di continuare... Lì a Popayan per il vicario di Cristo si sono di nuovo rincarnate le parole del profeta Isaia "lo Spirito del Signore mi ha inviato a dare lo buona novella ai poveri, a consolare chi ha il cuore trafitto, a predicare lo libertà agli oppressi". la vita di padre Alvaro Ulcuè - Nasa Pal - prete indio!

(Per notizie su padre Alvaro M. Consolata giugno 1985)



Rolando


in Lotta come Amore: LcA ottobre 1986, Ottobre 1986

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