Nel precedente numero di "Lotta come Amore" che mi è stato spedito in Etiopia, ho letto la simpatica e affettuosa lettera scrittami da Sirio a nome degli amici dell'A.R.C.A. (cioé dalla gente che lavora nel capannone di via Virgilio a Viareggio). Ho risposto al richiamo e sono rientrato in Italia da poco più di un mese.
Riporto qui di seguito un articoletto che ho scritto per un bollettino missionario. Offro agli amici queste semplici considerazioni che però rispecchiano bene ciò che ho vissuto in questi mesi. Sono poche cose, me ne rendo conto, ma con poco bagaglio sono partito e con meno ancora sono tornato... avendo lasciato in Africa anche il mio lavoro artigiano, quello vissuto in questi ultimi dieci anni e che tanto ha voluto dire per me. L'ho affidato nella mani di ragazzotti che rispondono agli strani nomi di Gazahign, Hailu e Ghirum, dotati di occhi attenti e di un colpo di martello secco e sicuro.
Nel capannone di via Virgilio mi sembra di raccogliere altre esigenze cui vorrei poter dar seguito e allora manca il tempo per lavorare' il ferro scaldato dalla fiamma. Con abbondante presunzione (ne ho sempre avuta una buona scorta...) potrei dire di aver sentito bisbigliare:
"Ehi, forgiatore di ferro, molla tutto e vieni: sarai forgiatore di uomini... ". Ma non ne sono troppo sicuro. Oltretutto questa storia mi sembra di averla già letta da qualche parte ed era, probabilmente, tutta un'altra cosa!
Sono dieci anni che in Italia, a Viareggio, faccio il fabbro: un lavoro ormai dimenticato nelle mani di pochi anziani, avvilito nel rustico più banale o comunque relegato ai margini dell'artigianato artistico. A me piace il ferro, materiale povero eppure consegnato alla dignità delle semplici forme di attrezzi da lavoro, di manufatti di uso comune quasi a sottolineare l'umano arrugginirsi nel consueto trascorrere delle ore e dei giorni ed insieme il temprarsi a lucido acciaio nella fedeltà quotidiana attiva e silenziosa.
E piace il bagliore del fuoco alimentato dall' aria che soffia invisibile tra i carboni ardenti, l'odore acre dei gas ancora imprigionati, il ravvivarsi del ferro attraverso un arcobaleno di colori: dall'azzurro intenso di acque profonde alla madreperla purissima, quando il pezzo acquista una insospettata leggerezza e si torce, si piega, si raffina, prende vita e colore insieme fino a chiudere nella forma voluta una vigorosa e profonda energia. Ora mi trovo in Etiopia, ad Assella, "inviato" da un gruppo di 'Amici del Terzo Mondo' della mia città per avviare una piccola lavorazione del ferro con alcuni dei quasi 200 ragazzi che vivono nella Missione dei Padri della Consolata.
Dal piccolo porto di Viareggio, conca serena e familiare, stretta tra il mare e la chiostra delle Alpi Apuane, poche ore di volo mi hanno portato in un mondo completamente diverso. L'occhio si perde nell'immensa piatta della Rift Valley e, là dove questa si increspa, le ondulazioni si susseguono incessanti come le grandi, quiete e possenti ondate oceaniche, respiro profondo della vastità della terra.
È proprio questo ampliarsi quasi all'infinito di nuove prospettive nelle cui pieghe paiono nascondersi città e villaggi che mi ha allargato il cuore oltre le soffocate e convulse angustie di tanto nostro vivere. E mentre il sangue si attrezzava lentamente alle diverse condizioni degli oltre 2500 metri di quota, lo spirito accoglieva questo dilatarsi di orizzonti nel chiaro e limpido sgorgare della fede: "veramente la terra è di Dio!".
E poi la gente, popolo fatto di tante etnie e lingue e storie che intrecciano, nel tentativo continuo di sopravvivere, tradizioni antichissime e spicchi di modernità. Un popolo in continuo pellegrinare lungo i bordi delle strade solcate da poche e spesso traballanti automobili. Gente spinta da bisogni elementari che noi del mondo progredito abbiamo archiviato come pagine di un libro che non vorremmo né sapremmo più decifrare. Occhi giovani ti fissano dappertutto, avidi di ogni piccola novità. È gioia istintiva, tipica ricchezza dell' adolescenza, meraviglia del sole, dell'acqua, del cibo, del serrarsi insieme come gioco che distoglie dalle ombre inquietanti che posseggono da sempre il cuore dell'uomo. E fame e malattia e guerra debbono essere davvero presidi di mostri implacabili per arginare e violentare questa dirompente, tangibile gioia di vivere.
In questa realtà operano i missionari. In un tempo che sembra a volte pietrificato di secolare immobilità mentre lo spazio ha la misura di lunghe giornate passate su Toyota e Land Rover a ricucire pazientemente lungo itinerari spesso accidentati il tessuto della sopravvivenza. Una sensazione simile a chi si arrampica sulla roccia e volge il campo al di sotto: quando ci si accorge di essere terribilmente piccoli e tutto ciò che si può fare appare come voler scolmare il mare con l'incavo delle proprie mani.
Ed anche se le loro opere, sostenute dalla Carità solidale di tanta nostra gente, rivelano miracoli di sagacia, di ostinazione, di operosità umana, la Fede si innalza esile e scarnificata, vera ed autentica opera di Dio. L'annuncio è piccolo seme affidato al vento dello Spirito. E' seme che deve morire, sepolto nel cuore di una cultura e di un popolo, custodito e livellato dall'Amore crocifisso, per rinascere secondo i tempi che solo il Padre conosce. Rimane, testimonianza visibile, questo piccolo, semplice, povero ordito di dedizione e di offerta di uomini e donne che si impreziosisce solo quando viene sfiorato dal mistero della Luce Trasfigurata.
Così la Missione di Assella con la piccola folla di ragazzi (piccoli sui quattro, cinque anni fino giovani sui venti), i laboratori, l'ambulatorio per la gente nel quale lavora una figlia di S. Francesco e la casa delle suore con due figlie di S. Anna che hanno aperto il lavoro anche alle ragazze. E per tutti la animazione e la direzione sapiente, rispettosa e costante di Padre Silvio già da oltre 14 anni . missionario in Etiopia.
Sto veramente bene con loro, con questa famiglia ricca di figli, vivacissima eppure attenta a produrre uno sforzo comune perché ciascuno si senta partecipe, accolto, responsabile secondo la misura della propria capacità.
Con una ventina di ragazzi tra 14 e 18 anni e con l'aiuto di uno dei più grandi che si sta assumendo la responsabilità di tirare avanti il lavoro dopo il mio ritorno in Italia, ho messo in piedi una piccola officina in grado di produrre piccoli manufatti in ferro, da semplici capriate ad infissi leggeri, ad attrezzi ricavati da fogli di balestra forgiati.
Non è stato facile per me, cittadino abituato a rivolgermi al fornitissimo negozio d'angolo, rendermi conto di una condizione di mercato di lavoro, di vita economica così diversa. Mi ha aiutato a non rimanere bloccato la mia esperienza di lavoro "povero", realizzato spesso con scarti ricavati dopo lunghi giri dai rottamai. E il senso di un lavoro collegato al prodotto finito prima che al computo orario del tempo impiegato. Così, dopo alcuni inevitabili imbarazzi iniziali, tutto è filato liscio con un grande impegno da parte dei miei giovani apprendisti divisi disciplinatamente in squadre e turni.
Giorno dopo giorno è maturata una amicizia semplice e simpatica; un rispetto reciproco serio che mi ha impressionato proprio perché privo di rigonfiamenti a seguito di interessi, artificiosi entusiasmi, accondiscendenza verso paternalismi tutti paste e gelato. Mi verrebbe da dire che a volte mi sono sembrati degli uomini se non sapessi di far torto alla loro gioventù, al diritto della loro età di assaporare l'esperienza senza garantire la continuità e soprattutto se, per fortuna loro e mia, molte volte non si fossero rivelati inguaribilmente ragazzi...
A me, uomo per età e già un poco stagionato, hanno dato fiducia e coraggio interiore per affrontare la complessità di risolvere moltissimi dei problemi che oggi il mondo pone.
Una sorta di saggezza che non nasce dalla rassegnazione, ma dal futuro come tempo reale che ci chiama alla vita, oggi, forse più che mai, non da solo, ma nella condizione e nella condivisione di questa umanità.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA gennaio 1987, Gennaio 1987
Luigi Sonnenfeld
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