Da pochi mesi ho abbandonato il lavoro del ferro. Un lavoro che mi piaceva, nel quale mi sono molto identificato e che ancora sento "vivo" nelle mie mani. Perché allora decidere di smettere? Uno psicologo potrebbe trovare tutta una serie di spiegazioni del mio "inconscio" malato. Ed alcune di queste molto probabilmente risponderanno a verità. Sta il fatto che nella mia vita è ricorrente il "ricominciare" senza che un nuovo inizio comporti necessariamente la fine traumatica del periodo precedente. Non è tanto in me la voglia di rifarmi di una fase negativa quanto l'esaurirsi di motivazioni e quindi la caduta di tensione che mi toglie energie e mi avverte - come un campanello di allarme - della necessità di cambiar rotta. Necessità per me, necessità soggettiva beninteso, perché quasi mai si sono avvertiti i segni di una necessità oggettiva scaturita da eventi positivi o negativi che mi hanno costretto a nuove strade. E quando questo è accaduto ed ho subito il cambiamento ed ho dovuto "ricominciare", non ho potuto fare a meno di riconoscere che in quel caso era il campanello d'allarme che non aveva funzionato oppure, come a volte mi accade con la sveglia, il campanello aveva compiuto il suo dovere, ma io immerso nel sonno di un inutile "continuità", l'avevo messo a tacere senza neppure rendermene conto.
Perché, ad essere sincero, - ma non succede forse un po' a tutti? - io invidio quello che non ho e porto dentro la sete di una permanenza, di una immutabilità, di una continuità oltre il tempo e lo spazio. Il desiderio che il mondo si fermi e non continui a proporre cambiamento. Ho invidia o meglio, ho sincera ammirazione per coloro che nella propria vita riescono a privilegiare il valore della "continuità" e la custodiscono come valore importantissimo che, sia pure attraverso i cambiamenti che soprattutto lo scorrere del tempo impone, offre di se una chiara e luminosa identità. Questa mia "carenza" si produce a volte in comportamenti o in sentimenti dei quali non posso certo andare orgoglioso.
Così nel tempo di questo mio ultimo cambiamento. Non solo di lavoro evidentemente, ma non perché cambi ora qualche cos'altro, ma perché quando si cambia - ed ancor più quando si "Ricomincia" - un po' tutta la vita é coinvolta e non può essere altrimenti. Si stabilisce una vulnerabilità che è come quella del bambino in fasce. Il nuovo nato va custodito con attenzioni che alterano i ritmi consueti della giornata, sconvolgono le abitudini le sistemazioni, disorientano gli amici e così via. E - di contro, tanto per continuare il paragone, - il neonato si manifesta subito altamente recettivo a nuovi stimoli, nuove sensazioni, vulnerabile a tutto ciò che lo circonda. Sta succedendo così anche a me. Senza enfasi o depressioni: sono fasi della vita e mi sento già così tanto fortunato ad attraversarle senza esservi costretto da violenze storiche che macinano l'esistenza di tantissima gente.
Che cosa cambierà in me? Francamente non lo so ora che il progetto per un lavoro con gli handicappati da affiancare a quello già esistente nel nostro capannone di via Virgilio sembra essersi allontanato nel tempo. Sono come a "bagno maria" fino agli inizi del nuovo anno. Tengo caldo questo progetto e se si concretizzerà, bene, altrimenti, nel frattempo, maturerà qualche altra cosa. Certo, anche ora non sto con le mani in mano ma non interessa che io scenda in dettaglio. Quello che importa è comunicare insieme all'apprensione e all'incertezza (chi non ha mai provato la sensazione di avere sbagliato binario aspettando di prendere un treno alla stazione?) una serenità ed una fiducia di fondo. Sento che qualcosa si sta muovendo e ne sono felice. I segni di nuovi incontri, di rinnovati spazi interiori, le piccole cose che danno respiro alle idealità e alle utopie: è come un nuovo amore che sta nascendo. L'animo del fanciullo che non si arrende tira fuori la testa oltre le pesanti responsabilità che le constatazioni del mondo di oggi propongono. Fa soffrire questo fiorire di attese personali, direi quasi "private", nel contesto di una pesantissima aridità di valori e di progettualità collettive. Ma è sofferenza per ciò che pare assurdo e stonato rispetto alla necessità di tenere duro, alle fedeltà piccole e grandi, alla continuità del "bene", eppure risulta incontenibile come la febbre che, secondo i buoni medici di una volta, andava "covata" lasciandola esaurire nel suo scopo di essere segnale del passaggio della malattia. Come a volte mi dice Caterina, io do di me un'immagine "rigida" come di un uomo tutto di un pezzo, di una "colonna" della situazione, mentre nella realtà risulto molto più "flessibile". Io, che a volte tendo a pavoneggiarmi di fronte a questa mia carissima figlia, le rispondo che la mia altezzosa stabilità può forse indurre in errore, ma tutto sommato è sufficiente pensare che anche una antenna ha caratteristiche simili. Un'antenna pronta ad accogliere e ad entrare in sintonia con ogni segnale che il tempo che passa e la vita propongono. E magari fosse sempre vero...
Mi perdoneranno gli amici abituati a vedermi trafficare con il ferro e con il fuoco appena all'ingresso del capannone: l'antenna ha deciso di rispondere in prima persona agli ultimi segnali: si "ricomincia"!
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1987, Ottobre 1987
Luigi Sonnenfeld
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