Il primo giorno di lavoro

(1956-59: la vita operaia. Testo letto nella veglia)
La mattina che sono andato al lavoro io volevo che gli operai sapessero che io ero prete; quindi sono andato vestito con la tonaca, sono arrivato al cancello dove c'erano degli operai in attesa che suonasse la sirena per l'inizio del lavoro. Arriva dunque questo prete, si avvicina; gli operai vedono che non passo davanti al cancello ma vado verso il cancello e quando sono lì a pochi passi si aprono in due gruppi e si ammiccano l'uno con l'altro con gesti molto strani: sono un prete e bisogna difendersi come da una specie di malocchio... hanno messo particolare attenzione che io non li sfiorassi... Il cancello era ancora chiuso e sono rimasto lì, solo, nessuno mi rivolgeva la parola.
Suona la sirena, si apre il cancello e io entro dentro e timbro per la prima volta il cartellino. Sono andato negli spogliatoi, mi sono liberato della tonaca e l'ho attaccata ad un attaccapanni, mi sono messo la tuta e ho cominciato. Anche la seconda mattina sono tornato con la tonaca poi in seguito sono sempre andato in tuta; solo in occasione di scioperi di manifestazioni, io partecipavo regalmente vestito da prete perchè era importante che un prete fosse visibile dentro le lotte operaie.
Sono passati molti mesi prima che io fossi veramente accettato dagli operai: nel primo anno direi che non ho molto legato perchè è continuata quella diffidenza iniziale che io capivo molto bene, che giustificavo pienamente anche perchè sentivo che io dovevo portare le conseguenze di una separazione del mondo operaio dalla Chiesa e della Chiesa dal mondo operaio. Quindi non potevo pretendere che la mia presenza potesse significare qualcosa di diverso. Poi qualcuno ha cominciato ad avvicinarsi e a chiedermi: «Cosa fai?» Oppure: «Perchè sei venuto?». Altri insinuavano: «Sei il ruffiano del padrone, sei la spia del Vaticano... se tu sei qui ci sono dei motivi perchè i preti sono disposti a stare bene, a non lavorare, a non faticare, a campare sui sacramenti...».
Io in quel periodo vivevo in una solitudine veramente paurosa: qui nella mia stanzetta e nella mia chiesetta ero proprio abbandonato a me stesso; il clero mi aveva segregato e direi quasi emarginato, non avevo rapporti e possibilità di discutere i miei problemi, né qualcosa che mi aiutasse a reggere questa situazione così pesante. Ero nella solitudine anche nella vita operaia perché per giornate intere io non scambiavo una parola; tutt'al più dicevo buongiorno a qualcuno... In quel tempo di lotta politica radicale i preti non potevano andare per le strade senza rischiare di essere umiliati. Però ho conservato molta serenità e molta pace anche se vivevo un'attesa molto penosa.
Le cose si sono poi scongelate pian piano; qualcuno ha cominciato ad avvicinarmi, ho detto dove abitavo, perciò potevano indagare cosa facevo, come vivevo, invitavo a discutere. Così certe cose hanno cominciato un po' a chiarirsi e c'è stato un avvicinamento da parte di qualcuno, ma nella massa è rimasta la separazione e la diffidenza dei primi giorni. Per l'amicizia di un ingegnere sono poi entrato in un altro grande cantiere dove le cose sono andate rapidamente cambiando, un po' perché tutto l'ambiente operaio sapeva di questo prete che lavorava, poi perché sono avvenute delle cose molto importanti.
La prima è questa: una fabbrica di riparazioni di vagoni è andata in crisi anche perché c'era il progetto dello smantellamento di tutta la fabbrica; gli operai hanno reagito barricandosi all'interno dell'azienda. Questa occupazione di fabbrica è durata praticamente quindici giorni. A quei tempi la solidarietà operaia era molto intensa e la città ha sentito molto la vicenda. Le mogli e gli amici degli operai avevano portato materassi, coperte, paglia, alimenti di prima necessità perché i 150 operai chiusi dentro la fabbrica, in questo volontario campo di concentramento, potessero resistere. Io sono andato e ho trovato operai seduti, lassù, sul muro di cinta; e sotto i picchetti di polizia e carabinieri. Ho chiesto alla direzione di poter entrare. Niente. Ho detto che il sacerdote è concesso anche ai carcerati e ai condannati a morte, ma nulla da fare. Sono ritornato nei giorni successivi nel pomeriggio dopo il lavoro per vedere, sapere; parlavo... Qualcuno ha avuto la buona idea di chiedermi se io la domenica avessi celebrato la messa nella fabbrica occupata. Ho riflettuto poi ho deciso di andare. Ho messo gli arredi sacri in una valigia, ma non mi sono presentato all'entrata principale ma nella parte della fabbrica che si affacciava sulla campagna. Mi sono presentato al muro, mi hanno calato una scala, vi sono salito e gli operai mi hanno aiutato a scendere dall' altra parte. Questa mia azione, che poi è stata qualificata come «il salto dal muro», è stata importante perché la cosa fu risaputa dall'opinione pubblica e da tutto l'ambiente operaio della città. Avevo infatti scavalcato una legge terribile, quella che separa così spaventosamente gli uomini. Celebrare l'eucarestia si collocava perciò molto bene in quella situazione di angoscia, lotta, sofferenza, oppressione.
Sceso dunque dall'altra parte del muro ho camminato qua e là guidato dagli operai a vedere la loro precaria e penosa sistemazione di occupanti. E mi hanno fatto vedere l'azienda: un' attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant'anni fa, un disordine inconcepibile che rendeva più esasperata la fatica quotidiana. La celebrazione della messa è stata molto bella, molto sentita anche dagli operai che non erano credenti. Gli operai avevano preparato l'altare con attrezzi di lavoro e lamiere; ed era bello aver visto questi uomini cosi pesanti, rudi, massicci, distribuire piccoli fiori su quelle lamiere... facevano tenerezza. Poi si sono messi tutti intorno all'altare intorno ad una tavola di famiglia. Un silenzio enorme. Ero felice che quella messa servisse a dei poveri, a degli operai: l'importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse il suo sacrificio di redenzione, che desse significato e valore infinito a questa povera vicenda umana, a questa situazione di ingiustizia. Ho parlato durante la messa in termini evangelici del valore che quella lotta operaia rappresentava per cui bisognava reggere, resistere e anche Cristo attraverso l'eucarestia significava in quel momento la sua presenza.
Dopo la messa un inviato della direzione è venuto a leggermi una dichiarazione nella quale mi si diceva che, a seguito della mia violazione di domicilio, l'azienda si riservava di prendere tutti i provvedimenti che riteneva opportuni. Enormi strette di mano mi hanno accompagnato al muro della legge che ho risalito, mentre stavo pensando se Dio era più di là o di qua dal muro.


Sirio


in Lotta come Amore: LcA febbraio 1988, Febbraio 1988

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