Cari amici,
non so quanto sia giusto, ma forse è conveniente non guardare troppo per il sottile e quindi vi racconto qualcosa delle mie vacanze. Se non altro avrà il valore che hanno le cartoline illustrate che riceviamo durante le ferie dagli amici: un pensiero gentile, un ricordo affettuoso, come dire, in questa vallata stupenda delle Alpi ti ho pensato, accanto a questo rudere antico o mentre contemplavo quest'opera d'arte, mi sei venuto in mente. E nello stesso tempo vi è anche un palpito di Amore: sarei stato tanto felice che anche tu avessi potuto godere queste meraviglie, pensa se le avessimo viste insieme... Una cartolina illustrata, spesso assai stereotipata, un saluto, un nome, tirato là, confidenzialmente!
lo non ho inviato cartoline, altro che, e pochissime, ai miei parenti, perché ci tengono tanto. Ho pensato però di scrivere qualcosa delle mie vacanze.
Perché qualcosa di particolare mi è stato dato veramente di vivere. Quel qualcosa e qui sta ciò che più di tutto ha contato nelle mie vacanze, quel qualcosa che ha forzato il mio piccolo mondo interiore e quello di vita vissuta, ad allagarsi, a dilatarsi in vastità senza misura. E' caduta la mia prigione quotidiana, come mura che crollano e mi sono ritrovato in distese immense, a perdita d'occhio. E' stato importante e penso decisivo per tanti aspetti, ritrovarmi solo, anche se con amici carissimi e in tutto estremamente premurosi, come sperduto, smarrito, letteralmente sopraffatto dall'affollamento di gente così diversa o dalla distesa di steppe sconfinate, di deserti senza fine, dove non è un ciuffo d'erba e tanto meno un albero. Ho vissuto molto intensamente e quindi con profonda sofferenza, la solitudine dell'essere umano: quei punti neri lungo le piste del deserto, quelle case, un cubo di qualche metro, bianco di calce e tutto riarso intorno da un fuoco di sole che non la-scia cenere ma polvere gialla, o accucciate una accanto all'altra nei villaggi, come a sostenere un peso insopportabile, riunendola insieme, di miseria. O nei vicoli delle città, gente ammassata, variopinta eppure tutta incredibilmente uguale, a vendere o comprare le cose dei poveri o sul limitare dei negozi per turisti; in implorante attesa che quelli della macchina fotografica si degnino dare un'occhiata e spesso è di stupida sufficienza, alla monotonia della chincaglieria esposta.
E poi bandiere al vento, innumerevoli oltre ogni immaginazione. Sventolanti dovunque a quel vento caldo di un sole di fuoco, come fiamme di un incendio a riardere ancora di più strade e case e piazze incenerite. Bandiere rosse con un disco bianco e dentro il disco la falce di una luna rossa e una stella. Un socialismo di cui forse quella falce senza il manico e la stella rossa, sono, più o meno, tutto. E manifesti attaccati ai muri, uno accanto all'altro, in lunghe file e con sempre la stessissima faccia, sorridente a denti falsi. Piccoli, grandi, grandissimi e sempre terribilmente gli stessi, gli stessi fino allo sgomento. E sulle piazze, sui gloriosi piedistalli, il solito «grande combattente» a cavallo di bronzo. Esattamente come Garibaldi o Vittorio Emanuele Secondo. In quei giorni del mio viaggio «il padre della patria» compiva 77 anni e di sfuggita mi è capitato di vedere alla televisione muoversi quella faccia dei manifesti e mi è sembrata come un'allucinazione: dopo mi erano diventati ancora più opprimenti, come uno che ti segue e ti osserva continuamente...
Un 'esperienza lunga una quindicina di giorni ma la sua intensità si aggravava di giorno in giorno scavandomi sempre più nell'anima questo sentimento stranissimo di solitudine. In quei giorni come non mai ho sentito anche fisicamente quanto la condizione del vivere umano sia la solitudine. Il vuoto dentro e il vuoto fuori. Perché tutto quello a cui viene dato un senso, un valore è artificioso, una sforzatura, una falsificazione più o meno cosciente. La realtà più vera del vivere è il deserto, dove nemmeno alberi occupano un posto e domina impietoso il sole e l'arsione rende l'acqua miraggio o miracolo.
La vita è un dono offerto per guardare intorno, accogliere nell'anima e nella carne il Mistero e poi la carne il vento se la porta via nella polvere e l'anima se la riprende l'infinito Mistero.
Tutte queste cose le leggevo come scritte, ma ne sentivo anche il racconto ascoltando il vento, nella povertà cenciosa di uomini sdraiati nella. polvere all'ombra rada di un olivo o di uno scheletrito eucaliptus o all'ombra riquadrata e afosa del cubo delle case. Ma più che tutto nelle donne, eternamente rassegnate, ravvolte dal velo bianco ingiallito, dal capo ai piedi, trattenuto sotto il mento con una mano, o se le mani sono occupate, stretto tra i denti. Senza sorriso, con un camminare ancheggiante come se l'andare o il venire portasse la fatica di un peso millenario per strade non tracciate. Cammelli, asini, donne, vecchi, sono la stessa, identica immagine di un'infinita rassegnazione, segnata di dolcezza negli occhi misteriosi, come se lo sguardo venisse da un altro mondo, dove regna soltanto la pazienza, quella che aspetta sempre e non si stanca mai.
E pensavo a Dio. Immediatamente e senza possibilità e volontà di distrazione. Dio pensato su questa terra riarsa che chiede soltanto acqua e non le viene concessa, è tutt'altra cosa che pensarlo nella nostra terra fatta di verde, nelle nostre case dove il rubinetto dell'acqua è a portata di mano e la doccia e la vasca da bagno. Anche in se stesso sembra tutt'altra cosa, tanto più in rapporto a noi, che Dio lo consideriamo a nostro uso c consumo. Di fatti su questa terra Dio è Allah e da dopo il settimo secolo ha soppiantato, spazzato via il Dio dei cristiani. Forse per questa terra a vastità sconfinata, mare di sabbia, ribollente di fuoco di sole, va bene Dio fatto Allah, l'assoluto, l'indiscutibile, il supremo. Ma io pensavo al mio Dio, Padre, Figlio, Amore. Venuto anche Lui a camminare nel deserto, a morire di sete, sotto il sole e sulla croce. E guardavo quei poveri uomini, quelle povere donne e i loro bambini a razzolare nella polvere assolata e i vecchi cenciosi a trascinare l'ultima e più pesante fatica. Mi pareva impossibile che fra il mio Dio e Allah non vi fosse un'intesa, un ravvicinamento, un'identità, l'unico Dio, ragion d'essere dell'esistenza, perché quella povera gente sono creature, carne e anima, traboccate di sofferenza, vinte dalla privazione: eppure cuori ansiosi di Amore, bisogno di tenerezza come di un oasi dalle fresche acque e dalle palme cariche della dolcezza dei datteri.
Il popolo dei poveri non moltiplica gli dei, perché per i poveri, per chi non è niente e deve mendicare dal lavoro la vita e strappare dalla terra il sopravvivere, c'è un Dio solo, l'identico Dio per tutti, anche se i teologi e il clero gli mette nomi diversi a quest'unico Dio. Cercavo quest'unico Dio nello sbaluginare del sole sulle sabbie infuocate, tra le file degli innumerevoli olivi, nella solitudine di quegli uomini e di quelle donne, nel bianco accecante del cubo delle case. E anche nei vicoli delle città, affollate di povera mercanzia, tanfate di ogni odore, nel brusio indistinto della compra-vendita, in una lingua tanto dura quanto armoniosa.
Ma questo Dio, lo sentivo bene che non riuscivo non soltanto a vederlo, ma neppure a intuirlo, a immaginarlo. Ne stavo soffrendo terribilmente, anche perché non ne capivo il motivo di questo nascondimento. Ma poi, di colpo, ho capito. Non potevo vedere o anche semplicemente avvertire la presenza di Dio, il mio Dio o Allah che fosse, perché io ero un turista.
Questa storia del turista. Mi ha perseguitato e oppresso per tutta la durata del viaggio e anche adesso questa scolorita, squallida figura del turista me la sento appiccicata alla pelle come un vestito di cui non riesco a liberarmi.
Perché il turista che va a intenerirsi sulle rovine di antiche civiltà può anche essere cultura. o qualcosa del genere. Il turista che si ferma estatico davanti alle opere d'arte è commozione, del senso estetico, più che rispettabile. Ma il turista che va in cerca di spettacoli umani fatti di miseria, di vita dura, di fatica per il sopravvivere e al momento giusto si esalta così tanto da tirar fuori la macchina fotografica per il ricordo perenne da far vedere agli amici, questo turista è una figura disumana, dalla disumanità staccata, separata, quella disumanità che guarda e se ne va. Gesù l'ha descritta, da par suo, nella parabola del Samaritano.
Sono stato questo turista e ne chiedo perdono a quella gente. Ma, per grazia di Dio, mi è stato dato di capire, anche se a fatica, subito dopo i primissimi giorni. Perché mi hanno rubato, sfilandola dalla borsa, la mia macchinetta fotografica da buon turista. Passato il grosso disappunto per la figura del turista fatto fesso, a poco a poco ho capito e in breve tempo mi è stato dato di liberarmi dalla stupidità e di guardare la gente e le cose e la steppa e il deserto e le oasi con l'occhio fotografico, con l'attenzione distaccata dello spettatore .
Come una purificazione mi è scesa negli occhi, una capacità di visione nuova e quindi di rapporto vero, diretto, immediato. Senza diaframmi falsificanti e stupidità di intenzionalismi, anche se più o meno coscienti. Una disponibilità alla comunione per un dilatarsi di accoglienza, per un approfondirsi di partecipazione.
E sempre più mi cresceva nell'anima la pena di dovermene andare, perché dovevo rompere un'intesa, un essere ormai insieme. Quella la sentivo la gente vera, autenticamente umana, liberata e pura, da invidiarla profondamente. Così quella terra, ancora vasta e libera, segnata soltanto dall'orizzonte, paziente alla calura del sole e dolcemente riposata alla frescura della notte e al refrigerio della rugiada. I
E' stato per questa purificazione dal peccato del turista che piano piano mi è stato dato d'intravedere il Mistero di Dio, l'identità del mio Dio e Allah e cioè l'unico vero Dio. Quanto più mi è accaduto di questa comunione, di questo intenderci, di questo parlarci a cuore a cuore, fra me e quella gente, fra me e quella terra, tanto più è avvenuto l'avvicinarsi e l'unificarsi del mio Dio e di Allah, fino a diventare l'unico Mistero, infinito e inconoscibile, ma concreto e reale come è la storia, nel quale cercare di scoprire un filo di luce, un accenno di spiegazione, un palpito di Amore. Perché di questo Dio, io e quella gente abbiamo ugualmente bisogno.
Assoluto bisogno.
All'ultima sera, era la vigilia dell'Assunta e il giorno dopo il turismo si sarebbe concluso, abbiamo cercato e trovato una casa di tre suore: un sacerdote francese diceva la Messa. Appena dopo la Consacrazione, dal minareto vicino, la voce potente del Muezzin ha inondato l'aria, dolcemente rosata dal tramonto, di Corano.
Ho lasciato di seguire la liturgia accogliendo nell'anima quel canto dalle tonalità alte e basse, contorto, come camminare sul filo e precipitare, come volute che salgono contorcendosi e si distendono, si accartocciano e si liberano. Esattamente come la storia dell'umanità e quindi la storia di Dio.
Il Padre nostro, ma continuava quel canto, l'Agnello di Dio e il cielo e la terra erano pieni di quella voce, ho aperto la bocca e l'anima e il cuore dell'umanità e la crosta della terra, all'ostia; Corpo e Sangue di Cristo, e quel canto mi raccontava, che sì, realmente, questa vita è un grande Mistero.
La sera dopo, il sole scendeva ormai stanco per troppo fuoco, l'aereo ci ha inghiottiti e portati via. Quaranta minuti da Tunisi a Roma ma una separazione totale, come fra due mondi diversi, distanti fra loro a vastità stellari.
Sirio
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1980, Ottobre 1980
Luigi Sonnenfeld
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