Durante le ferie, anche se consumate rapidamente nel giro di pochi giorni, è difficile che mi venga in mente il lavoro. Ed anche se ci penso, lo faccio liberato dai problemi concreti che frustano la vita di tutti i giorni. Non questo o quel lavoro che sto facendo, ma il lavoro nella mia vita oggi. Ne farei tanto volentieri a meno! Essenzialmente è solo questione economica, il prezzo di una certa libertà cui non saprei più rinunciare, anche se è semplicemente la libertà della sopravvivenza.
Col passare degli anni diminuiscono le possibili «convertibilità» e mi sembra sempre più chiaro che le modalità del mio lavorare si sono abbastanza stabilizzate. Questo evidentemente per la difficoltà oggettiva ad inventare un lavoro tutto diverso partendo da zero; ma anche per il risvolto positivo che la manualità ha assunto nella mia storia personale.
Una diversa consapevolezza di me, del mio corpo, del tempo, dello scorrere della vita, del morire. Una conoscenza che genera sicurezza: non quella arrogante e padrona del futuro di una intelligenza che indirizza la vita, ma quella dimessa ed offerta giorno per giorno per aprirsi con fiducia alla vita.
Dunque, dicevo all'inizio che il lavoro non è la mia vita: tutt'altro. La mia vita è fatta anche di lavoro: questo sì, e non soffro in gravissima misura (è già grande privilegio) quella scissione tra lavoro e vita che è alla base di alcune delle grosse contraddizioni che affliggono questo nostro tempo. Non soffro quindi (almeno nella misura in cui la sofferenza diventa patologica) per il fatto che il lavoro mi porta via una bella fetta della giornata o perché mi obbliga (almeno in una certa misura) ad una continuità e ad una concentrazione che asciuga lo zampillo della spontaneità.
Soffro, invece, quando questo lavoro accolto nella sua dimensione di necessità elementare, si carica oltre misura di significati, di motivazioni, di intenzioni che finiscono per distorcere il senso più ovvio del lavoro stesso. Sembrerebbe a prima vista un arricchimento del valore del lavoro il sostenerlo con la nobiltà di profonde motivazioni, ma non so quanto questo presunto innalzamento comporti poi rovinose cadute. Di certo pericolose distorsioni e strumentalizzazioni quando si tenta di trasportare a livello ideologico ciò che può essere cammino nella storia di una coscienza.
Perché certo ora non posso davvero negare di aver attinto a diverse riprese a motivazioni di varia natura per sostenere il mio ingresso incerto e traballante nel mondo del lavoro, le frustrazioni del quotidiano monotono e freddo, la durezza e l'umiliazione di alcune condizioni oppresse di fatica. E certo ne avrò fatto qualche volta dottrina. Ma non credo di essermi fermato per la soddisfazione della mia coscienza.
Quello che mi ha aiutato, forse più di tutto, sono stati i miei occhialetti cerchiati d'oro, il parlare complicato e difficile, il carattere poco socievole: tutti difetti che in fondo si sono rilevati degli utili pesi per non galleggiare nel vuoto di sterili entusiasmi, di incontri troppo facili, di conversioni senza ostacoli, di abbracci interessati.
Ma probabilmente ha vinto in me l'interesse a capire, a cercare di accogliere e vivere più che la convinzione di una missione da compiere, la coerenza e la fedeltà a determinate scelte. Non dico questo convinto di sottolineare una contraddizione tra questi due modi, ma forse solo una subordinazione dell'uno all'altro.
Per esempio, mi vengono poste ogni tanto le domande tipo: «ma col lavoro che fai ti c'entra fare il prete?» accettando così come dato di fatto indiscutibile la divisione tra il mondo del lavoro e il mondo del sacro. E questa accettazione di fatto potrebbe essere giustificata abbondantemente dalla situazione ancora esistente per cui effettivamente il mondo del lavoro e la religione sono profondamente separati. Ma la cosa che lascia più perpìessi è la pacifica accettazione che una persona possa trovarsi a vivere due realtà così lontane senz'altro problema che quello del tempo, delle ventiquattrore in cui sistemare le cose da fare. Stravaganza, eccentricità, gusti sui quali non si discute...
C'è anche chi sapendo quanto sia faticoso e difficile condurre una doppia vita, chiede: «ma ti accolgono come prete?», sottintendendo i compagni di lavoro, un po' tutto l'ambiente operaio. E questa domanda non ti taglia a fette come la precedente, ma dà per scontato che vi siano motivi sovrapposti al lavoro, che lo giustificano nell'ottica della missione, del sacrificio o del nascondimento. Ed anche qui la cosa che mi lascia perplesso è la pacifica accettazione di un unico modello di sacerdozio da cui si parte per giustificare i comportamenti «strani» del prete che veste panni di lavoro ed entra come un qualsiasi operaio in fabbrica o in officina.
Ecco io mi trovo sempre a disagio quando devo rispondere a queste domande perché mi chiedono di collocarmi vedendo le cose da un punto che non è proprio il mio punto di vista. Perché io non mi vedo separato o kamikaze, non mi sento né prete a tempo parziale né «missionario» nella giungla retributiva.
Certo che «strano» devo proprio risultare. Prima mi lamento che sono quattordici anni che sono prete senza avere mai avuto un incarico che fosse uno, poi, quando mi offrono una parrocchia in cui andare solo il sabato e la domenica e gli altri giorni posso fare quello che mi pare, tiro le cose in lungo per non dire subito di no.
lo non ho il problema di fare il prete perché c'è un vescovo cattivo che non me lo vuole far fare, oppure perché c'è un vescovo buono che mi dice che c'è un quartiere con un seminterrato dove può andar bene la figura di un prete che anche lavora.
La sera vado a letto, dopo aver lavorato e quindi mangiato, incontrato e scontrato persone, momenti di poesia e ore di prosa, tragedia, commedia e farsa, e mi ritrovo io, la mia vita, gli altri, il mondo, la storia, l'umanità e la mia fede, Dio, Gesù Cristo. La mattina mi alzo e mi ritrovo davanti le suddette cose con una vita da vivere, una fede da spendere, un sacerdozio da «ministrare».
. Quello di cui sento il bisogno è di un uomo, una donna, un vescovo, una chiesa con cui confrontare questa mia vita, questa mia fede, questo mio sacerdozio per potermi convertire e rendere grazie con sempre maggiore sincerità a Dio del dono della vita, del dono della fede.
Perché ormai sento chiaramente che vita, fede e sacerdozio non corrispondono più a dei ruoli da rendere compatibili, ma espressioni di una stessa realtà da consumare ogni giorno senza metterne da parte neppure una briciola.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1980, Ottobre 1980
Luigi Sonnenfeld
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