Cari amici, parlare o scrivere può essere anche un mestiere, come il conferenziere di professione o come quel nostro (grande) scrittore vivente che ogni giorno né una di più né una di meno, scrive puntualmente cinquecento parole.
Può essere anche una pericolosa e disonesta alienazione: mettere in parole la propria incapacità di azione, tradurre in fiato di voce o con una biro (meglio ancora, modernamente, con una Olivetti) la propria pigrizia, se non la propria vigliaccheria nei confronti di iniziative di azioni, di lotte concrete, pagate a suon di rischio, magari di galera o peggio ancora. E può essere ancora, il parlare e lo scrivere, tentativo di sopraffazione, ricerca di dominio, con poca spesa e forse anche guadagnandoci su qualcosa, oltre alla gloria, anche di quattrini.
Ma speriamo che possa anche significare questo benedetto vizio di parlare in pubblico e di scrivere, come un lasciar parlare il cuore, l'aprirsi dell'anima perché dalla sua pienezza trabocchi l'urgenza di un dilatarsi creando spazi più vasti dove il respirare di se stessi e di altri, sia più facile e più vitale.
E' da un pezzo che mi sto ponendo questo problema: se possa sentirmi giustificato ancora (e gli anni sono tanti e le gioie e le amarezze, gli entusiasmi e le stanchezze) a parlare e a scrivere. Perché sto continuando a parlare in pubblico. E sto insistendo, quando me ne capita l'occasione, nello scrivere.
Ogni volta che mi invitano a parlare, non so dire mai di no. A volte mi sembrerebbe doveroso rifiutare e per mille motivi, tra i quali l'impreparazione, l'impossibilità di mantenere un livello di informazione, se non altro quella spicciola, quotidiana, la difficoltà di uno svolgimento logico, ordinato, insomma, la mancanza assoluta del 'mestiere'. Non so mai se dopo aver parlato, ho comunicato idee, convincimenti, risoluzioni, qualcosa che arricchisca, accenda, provochi. Forse lascio soltanto delle impressioni, come quella di uno che crede in quello che dice, ne prova tutta lo passione, e più ancora offre lo testimonianza che quello che riesce a dire non sono soltanto parole, ma prezzo di carne e sangue, compromissione totale, un mettere di contro e un giocare ogni cosa senza riguardi o sottintesi, fino al tutto donato. E rimango sempre con l'angoscia di essere e di avere così poco, che mi viene, ogni volta, davanti alla gente, lì seduta, che mi ascolta, una bruciante vergogna come di mani vuote davanti a chi chiede qualcosa, come una sorgente d'acqua disseccata o con appena un niente di filo d'acqua ed ecco, lì, chi è riarso di sete.
E mi metto a parlare come un bambino smarrito e mi viene da chiedere semplicemente perdono per osare di mettermi davanti a della gente, a parlare, come se avessi qualcosa da dire realmente, come se rappresentassi e significassi qualcosa. Mi assale uno stranissimo pudore, quell'immenso rispetto per la gente da accendermi nell'anima un incredibile desiderio come di abbracciare tutti, di voler loro un bene senza fine e allora mi metto a parlare lasciando parlare l'Amore intensissimo, lo Verità che mi si agita dentro, la Speranza viva e tenace che intravedo e che mi consuma di passione.
Se poi parlo di Dio (e quando non parlo di Dio? E come potrei non parlarne?) allora - certo non posso proprio dire, disgraziatamente, che è Lui che parla con le mie parole - allora il perdermi è dolcissima passione di agonia adorabile perché avverto con estrema chiarezza che le parole sono niente o non sono che ripetere con monotonia di cantico dolcissimo, Santo, Santo, Santo Dio dell'universo.
Le parole non possono essere più di un fiore nel prato, di stelle nel firmamento, o gocce di sangue versato nella gloria, o agonia di ansia contemplativa adorante.
Eppure ogni volta è l'angoscia di parlare in pubblico, un rischio misterioso per incertezza di me e coscienza d'indegnità, di cui sento il terrore e poi per quel pudore davanti alla Verità. Perché la parola pone scopertamente e immediatamente davanti alla Verità, senza veli e nascondimenti. Può vincere questo senso di pudore l'Amore alla Verità, perché l'Amore giustifica l'amplesso. Ma quest'Amore è connaturato soltanto con Dio e in Lui soltanto è la Parola. Amore e Parola sono Dio. E Parola pronunciata sulla terra è unicamente Gesù Cristo, la Parola di Dio che si è fatta carne e è parlata fra gli uomini.
Ogni altra parola o è segno, almeno ombra di quella Parola, eco fedele, anche se appena sussurrata o in qualche modo sinonimo. modulata su quella vibrazione oppure è menzogna, inganno, assurdità, fiato di voce. "Io vi dico che nell'ultimo giorno vi sarà chiesto conto anche di una sola parola detta inutilmente".
E questo giudizio mi pesa sull'anima un po' sempre ma specialmente quando devo parlare in pubblico perché ogni volta sento con impressionante chiarezza che quelle parole sono giudicate, una per una, dalla Parola. E' unicamente da quella Parola che le parole acquistano senso e hanno significato. A quella Parola devono ritornare con fedeltà, come l'interpretazione alla. Verità, l'acqua che scorre alla sorgente, il compiersi al suo principio. Perché diversamente è lo smarrirsi, il disorientamento, l'illusione, la menzogna. E sono menzogna non soltanto la falsità, la doppiezza, ma specialmente quando le parole sono a se stanti nei confronti della Parola e di chi la Parola è segno e dono. Perché il pronunciamento della Parola è soltanto di Dio, le parole ne sono un eco fedele anche se con risonanze immense, misteriose o balbettamenti penosi e linguaggi di una Babele caotica, impazzita.
Di questo mistero ne discorreva già il profeta Isaia nelle sue stupende intuizioni: «Dice il Signore: come lo pioggia e lo neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato lo terra, senza averla fecondata e fatta germogliare ... così sarà della Parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata». Sono stato risucchiato in questo flusso adorabile di Parola fra cielo e terra, terra e cielo: vorrei non avervi mescolato niente di mio in questo scendere, dilatarsi e risalire della Parola pronunciata dal Mistero di Dio. Ma so che non è così ed è motivo di profondo sgomento per me, anche se è vero che ho sempre cercato, ma è perché mi è stato donato, di coinvolgermi nella potenza della Parola gettandovi dentro tutta la mia passione, un credervi e un consentirvi totalmente, così da rimanerne traboccato e sopraffatto: e le parole sono il traboccamento di questa pienezza, le cicatrici brucianti di questa violenza.
Così è per lo scrivere. Anche se con più calma e quasi visione interiore più distesa, più a perdita d'occhio. Perché la pagina bianca davanti è come la polvere della piazza sulla quale Gesù scriveva: è cercare di raccontare quello che a viva voce è forse impossibile.
Scrivere è parlare nella solitudine. E' raccogliere e ascoltare nel segreto profondissimo dell'anima e gridare quando nessuno ascolta. Soltanto un' eco si ricama sulla carta. Come sangue che fila giù dalla ferita e lascia segni dove passa. Un cammino lungo e faticoso sulla distesa assolata, a perdita d'occhio di solitudine e uno cammina da solo e lascia segni dei suoi piedi e della sua fatica di viandante sulla sabbia, non si volta indietro a guardare il tracciato delle sue impronte, a rileggervi la sua fatica ansiosa, la speranza e la disperazione. Perché scrivere è inondare il foglio di anima, lasciar dilagare lo spirito in una effusione di se fino al dono totale. E' diventare filo di scrittura, un disegnare l'invisibile, lasciar cadere nell'abisso il lento liquefarsi del proprio mistero e di quello del mondo.
Scrivere è silenzio. Solitudine. L'ascoltatore rispettoso. Attesa trepidante.
Sussurrare la risposta. Lasciare che la fiumana sia incontenibile dalle sponde. E che il fuoco divampi a bruciare la foresta.
Stringere tutte le mani. Un abbraccio a misure universali. E percepire la voce dell'umanità. Quella silenziosa timida, infinitamente paziente. La voce della moltitudine, a scroscio di marosi a frangersi sugli scogli. O per lo straripare, finalmente, dei fiume della storia.
Questo scrivere le parole ascoltate nel terzo cielo che orecchio non ha mai ascoltato e parola ha mai raccontato. Sono parole che possono essere scritte, se scrittura non è vocabolario, grammatica, sintassi, cultura e scienza, nemmeno teologica, ma profezia, cioè manifestazione del nascosto, rivelazione del segreto, visione dell'invisibile, racconto del Mistero dell'uomo e di Dio.
Allora è il momento di prendere la penna colmata d'infinito e la carta come la volta del cielo e scrivere il numero delle stelle e raccontarne la luce. Mettersi ad andare avanti e indietro nel deserto della vita e scrivere sulla distesa di sabbia la sua storia. Dal principio fino al compiuto. Ascoltando con attenzione e rispetto il fragore delle mareggiate, la dolcezza del vento maestrale, guardando e descrivendo l'orrore spaventoso della tempesta, lo scivolare sul filo dell'orizzonte, della vela.
Perché scrivere è raccontare. Di sé, degli altri, dell'universo, dell'indicibile e del filo d'erba, delle civiltà e del bambino nella culla, del respiro del vivere quotidiano, dello sdipanarsi inesauribile del tempo. Di te e di Dio...
Mi capita qualche volta di rileggere cose che ho scritto e sono contento di non riconoscermi fino al punto di rimanere sorpreso e stupito delle cose che leggo, come se fossero di un altro e sono veramente di un altro, di un me stesso in altro tempo. Allora vuoi dire che sono in ricerca e penna e pagina sono il segno di un camminare incessante. Non so bene dove, ma forse lo so: al di là di me stesso, del tempo, dello spazio, verso dove sento che è il compiuto, il principio e la fine, il punto perfetto nel quale è nascosta la Verità mia e di tutte le cose. Giorno dopo giorno con serena e tenace fedeltà. E penna e pagina ne sono un segno, quasi una risposta.
Perché ogni parola che fiorisce come un ricamo sulla trama della vita e della storia, è parola e pagina di diario. E ogni giorno devo voltare pagina e vorrei, con preciso impegno, non ripetermi, anche se gli strumenti dell'armonia sono sempre gli stessi.
Perché scrivere, è vero che è raccogliere tutto il passato per viverlo intensamente nel presente proiettandolo nel futuro.
Ma è anche vero che arrivare in fondo alla pagina è un po' come morire e cominciarne un'altra, bianca e tutta disponibile, è un po' come una risurrezione, un inizio di vita nuova, di una meravigliosa, adorabile avventura.
* * *
Cari amici, ecco che ho scritto tutto quello che mi passa nell'anima in questo momento. Non è stato per dirvi qualcosa di me (e chi sono io?) ma per parlare anche di te, anche se non fai il conferenziere o lo scrittore. Ma anche tu parli e anche tu scrivi. quindi penso che offrirti queste mie riflessioni ti può significare qualcosa nel tuo parlare (o nel tuo non parlare) nel tuo scrivere (o nel tuo non scrivere).
Ma più che tutto volevo dirti che una buona misura di utopia è indispensabile nella vita e più ancora giova assai una vera e propria pazzia. Cioè lo capacità di credere anche all'incredibile e di giocare disinvoltamente e infantilmente ogni cosa nell'impossibile. Diversamente che cosa rimarrebbe da dire, di cosa potremmo parlare e su quale argomento scrivere, per raccontare cosa?
Eccoti queste paginette: spero che tu le trovi traboccate di dolcissima pazzia. E se ci è stato dato di conoscerci e di parlarci, ho fiducia che tu abbia potuto concludere: ma questo tipo è un po' pazzo. E Dio voglia che lo possa diventare del tutto; perché qui sta il difficile.
Ti abbraccio.
Sirio
in Lotta come Amore: LcA giugno 1980, Giugno 1980
Luigi Sonnenfeld
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