«Bisogna insegnare a dire di no, a gridare di no, uno, due, a folle, a popoli interi...
Quando i popoli impareranno a dire di no sarà solo allora pace, giustizia, libertà, perché prima bisogna essere NO per poter capire e decidere di sì».
Queste frasi le sono andate a ricercare su un testo scritto da Sirio e rappresentato alcuni anni fa a più riprese dal nostro gruppo teatrale di felice memoria. Mi sono venute in mente a proposito di tutta una realtà attuale in cui non si ha quasi più la forza per dire di no, ma - a me sembra - neppure la voglia di dire di sì. Poi questa faccenda del sì e del no appare chiara quando è tratteggiata nel chiaroscuro di un discorso appassionato, di una dimostrazione per successive evidenze, ma appare assai meno chiaro nella ricerca quotidiana, nel passare dei giorni, nell'usura della propria identità, nella stanchezza di una continuità di rapporti.
A livello di parole d'ordine, di slogan, il sì e il no sono emblematici di posizioni precise, chiare, inequivocabili. Costituiscono elemento di sicurezza, di identificazione. Abbiamo assaporato l'ebbrezza della manifestazione di massa, di popolo che diventa un sì e un no vivo e palpitante, una parola in cui scorre il sangue e lo spirito della vita. Ora non è più così, o comunque lo è molto meno. E' necessario allora rinnovare le parole d'ordine, aggiornare gli slogan?
Non sembra davvero risolutivo rispolverare striscioni e cartelli. La gioia di ritrovarsi insieme sulle strade, nelle piazze per un grido unito e appassionato, è momento di grazia che non può essere programmato a comando. E' il momento in cui il popolo rappresenta le proprie aspirazioni, le sensibilità più vere e nascoste, e le rappresenta perché le vuole vivere.
Ecco, noi abbiamo fatto le rappresentazioni di quello che vogliamo e di quello che non vogliamo: poi si spengono le luci dei riflettori e si accende la luce del sole che segna lo scorrere dei giorni. Occorre rinnovare le rappresentazioni, ma non si può pretendere di vivere come a teatro, anche se questo singolare teatro che è chiarezza di coscienza nel cuore della gente è legato strettamente alla vita.
Abbiamo gridato i nostri sì e i nostri no, abbiamo gridato anche per chi non ha voce, anche per chi non può o forse neppure vuole dire di sì o di no. Ma non dobbiamo dimenticare che ciò che diciamo è quello che vogliamo vivere.
Essere sì, essere no: questo è il compito quotidiano che ci attende nella realtà quotidiana che smorza ogni urlo anche il più forte. E innanzitutto renderei conto di quello che oggi in noi è si o no al di là degli slogan: a cosa noi diciamo sì o no con i segni concreti delle cose che facciamo, dei rapporti che abbiamo. E' una verifica difficile, molte volte arida. Di certo molto poco riposante. Perché mettersi in discussione oggi con tutto un qualunquismo ben più che strisciante, con uno spessore di nebbia che impedisce precisi e chiari punti di riferimento, non può essere come fare una passeggiata.
Intanto questo taglio di vita viene (mi verrebbe da dire pesantemente) criticato da quanti, sia pure «da sinistra», temono l'assenza o comunque la perdita di valori fondamentali. Si accompagna a questo giudizio l'interessata approvazione di quanti mettono davanti a se il dubbio come metodo per poter affermare tutto sommato il diritto a mutar direzione a seconda di come soffia il vento.
La strada è indubbiamente segnata da solitudine, attraversata da ostacoli che ne riducono il respiro a momenti personali, disseminata di paludi stagnanti di psicologismi, ma attualmente a me sembra quella più sincera.
In pratica, cosa vuoi dire questo? E' una terza via, una mediazione tra il sì e il no, un «forse tutto sommato, ma»?
Non direi davvero perché il sì e il no conservano tutta la loro luminosità cristallina. E' come lasciarsi illuminare o forse meglio lasciarsi mettere in croce sui legni del sì e del no che attraversano la nostra esistenza. E' alzare gli occhi oltre la stretta linea delle parole già fatte per poter prendere sempre nuovi punti di riferimento, per una rotta che non è fedele a nessuna stella ma al vento che gonfia la vela e muove la barca.
La parola è sempre meno importante.
L'albero mostra i suoi frutti: non vogliono, non pretendono di convincere nessuno, non sono apologetici: spiegano semplicemente a chi io sto dicendo di sì e a chi di no.
Non mi è impedito di partecipare ad altre rappresentazioni, con pochi o con tanti compagni che sia, ma si riduce il distacco tra la manifestazione e la vita. E questa riduzione non avviene su un piano quantitativo: non misuro la forza della rappresentazione con la coerenza di vita, perché se lo facessi dovrei ritirarmi nel deserto e star zitto per il resto dei miei giorni. Il distacco si riduce perché la luce che mette sempre più a nudo la povertà della vita è la stessa che illumina la rappresentazione sempre più completa di una umanità finalmente liberata.
Da una parte la pochezza di un'esistenza, dall'altra la ricchezza di una speranza gridata a piena voce: non c'è ostilità, non c'è confronto di giudizio, solo la pace di essere contenuti nello stesso respiro, avvolti dallo stesso calore, segnati dalla stessa luce.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA giugno 1980, Giugno 1980
Luigi Sonnenfeld
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