Raccolgo a cuore aperto queste parole di Dalmazio nel numero precedente di Lotta come Amore: «Da soli è impossibile vivere, in comunione è difficile perseverare: eppure senza comunione i singoli non vivono e senza il riconoscimento dei singoli le comunioni finiscono». Mi sembra che esprimano in modo conciso convinzioni espresse nel mio parlare di solitudine e di rapporti di amicizia. Ora poi, volendo affrontare una riflessione sulla comunità e trovando la cosa oltremodo difficile, l'aver sotto gli occhi quelle parole mi ha dato il coraggio di cominciare.
Per quanto mi riguarda la fatica non è tanto quella di ricucire un'esperienza comunitaria nata oltre quindici anni fa e passata attraverso vicende diversissime, quanto la difficoltà di decifrare il problema comunitario oggi, non solo per quanto direttamente ci riguarda, ma per la ricerca comunitaria in sé. Questo perché ciò che alcuni anni fa sembrava la chiave di volta, a livelli diversi, per un cambiamento profondo di persone e strutture, di fatto oggi appare come una strada chiusa al rinnovarsi di esperienze. La comunità non è più parola magica, evocatrice di rapporti diversi, sogno capace di ridestare energie sopite. Si potrebbe dare la colpa all'individualismo crescente, alla difesa accanita di spazi privati, all'annebbiarsi di prospettive e di progetti.
Secondo me, senza togliere niente ad un'analisi più completa ed esauriente, c'è un dato di fatto che fa da segnale al disagio che provoca oggi una proposta comunitaria: un generale spostamento dell'attenzione dal campo dell'essere a quello del fare. La resa di fronte all'esistenza di un muro divisorio tra il pubblico e il privato. La sfiducia, più o meno motivata, di poter realizzare uno stile di vita alternativo in una situazione come quella attuale così soffocante e massificante.
Ho discusso a lungo con Sirio, alla fine delle nostre ferie, sulla strada del ritorno. Una giornataccia, pioggia battente, raffiche di vento, e quindi tutta l'attenzione concentrata sulla strada e sull'argomento che stavamo affrontando. Sirio diceva che mancano i progetti, i contenuti. E' un vecchio chiodo questo suo. Lo capisco ed ha perfettamente ragione. Non ci si può mettere insieme per caso, in una dimensione tutta spontaneistica e idealistica. Però, secondo me, non è il vuoto di progetti, di contenuti, a provocare la difficoltà più grossa. Certamente, oggi come sempre, non è possibile nascondersi l'importanza di rispondere al fatidico «che fare?». Ma il disagio che impedisce anche a persone validissime di mettersi insieme per qualcosa di comune non nasce dalla difficoltà del progetto. Nasce dalla sfiducia nella possibilità di una autentica comunione nell'accoglienza reciproca. E' il « come» far comunità, come realizzare questo «riconoscimento dei singoli», che rappresenta, per me, l'ostacolo più grosso. Intravediamo il progetto, ma non ci aiuta la speranza di un rapporto reciproco, di un camminare insieme che non riproponga una divisione di ruoli, gerarchie più o meno riconosciute, la rinuncia ad un confronto per serrare le file di fronte ai contenuti che devono essere assolutamente salvati. Si ha la sensazione che contenuti e progetti non rappresentino i motivi di una ricerca personale messa in comune nella consapevolezza di un rispetto e di un'accoglienza reciproca, ma piuttosto comportino la necessità di strategie che condizionano ciascuno al suo posto: chi parla e chi ascolta, chi intuisce e chi accoglie, chi offre e chi è provocato. Importa solo che il progetto vada avanti e ciascuno si deve sentir realizzato non nella misura in cui si avvicina ad essere protagonista ma nella misura in cui l'obiettivo viene sempre più inquadrato.
Così spesso nell'ambito della famiglia, nelle assemblee di fabbrica e di quartiere, nella vita sociale e politica. Così nelle chiese, nella vita religiosa. Tutto uno sforzo di partecipazione, di ricerca comunitaria faticosa, sfibrante, spesso frustrante.
Mi sembra che il progetto che può accomunare uomini e donne non possa prescindere dalla ricerca di un nuovo modo di essere dove ciascuno possa sentirsi serenamente accolto nella libertà di un confronto. Dove non è affatto importante che facciamo tutti la stessa cosa, ma dove è essenziale che possiamo offrirci il senso di esperienze diverse. Perché ciò che veramente fonda comunione non è tanto far frutti dello stesso tipo e quindi cercarsi per delle somiglianze, ma aiutarci a capire qual'è il tronco cui siamo innestati, quale linfa ci vitalizza, quali radici ci donano stabilità.
Nell'accoglienza di un progetto comune abbiamo bisogno di sapere con chiarezza che non utilizzerà le nostre diversità per la sua realizzazione, ma al contrario fonderà le sue possibilità di riuscita proprio sulla diversità di ciascun partecipante quale garanzia della partecipazione di ciascuno nella pienezza del suo essere se stesso.
Se la ricerca comunitaria oggi segna il passo, forse ciò è dovuto al fatto che non abbiamo ben compreso che l'essere insieme non è per gridare più forte un'unica parola e neppure perché ogni parola possa inserirsi nella giusta casella di un discorso già scritto. La comunione è scoperta di un'armonia che innalza le nostre dissonanze al canto di una riconoscenza infinita.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1979, Ottobre 1979
Luigi Sonnenfeld
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