Alla Santa Madre Chiesa

ti scrivo ancora una lettera: non so se sarà l'ultima, il Signore solo lo sa e sia fatto come a Lui piace. Può darsi però che anche la stanchezza, e quella dell'Amore è particolarmente micidiale, mi sopraffaccia e mi svanisca quella sopravvivenza di fiducia e quella fedeltà di attesa che ancora mi trepidano in fondo all'anima: difatti basta un accenno e si riaccendono subito le speranze. Ma se poi, come ormai succede puntualmente, ricadono spente, allora l'amarezza è ancora più amara e il vuoto è sempre più abisso senza fondo.
Scrivendo a te, santa madre Chiesa, non è che scrivo al papa: non faccio distinzioni tra te e lui, ma nemmeno unificazioni. La Chiesa, non è un uomo, sia pure papa e tanto meno un personaggio anche se di eccezionale rilievo nell'attenzione del nostro tempo.
Da un papa mi attendo un cristiano, assolutamente null'altro. D'altra parte nella tua realtà storica e ormai, come gli uomini ti hanno costruita nel corso dei secoli, santa madre Chiesa, il papa quasi ti sostituisce se non proprio ti costituisce e alla fine risulti, me ne dispiace incredibilmente fino allo sgomento, per quello che è il papa, ne sei l'immagine e somiglianza, ne sei perfino la storia: storia di papi, storia di chiesa, non credo che ne esista racconto almeno negli archivi storici.
Succede quindi che scrivere a te, almeno questa volta, è come scrivere a lui, al papa felicemente regnante. Perché delle parole le ha dette lui ma non so bene se sono anche tue queste pa-role. Penso di no, anche perché sono contraddittorie, preoccupanti e bellissime, affogano le speranze e le riaccendono.
Ma è meglio pensare che sono parole di uomo, anche papa e quindi parole (dal dire al fare c'è di mezzo il mare) e poi oggi sono così e domani possono essere altre.
Perché anche il tuo papa, cara santa madre Chiesa, è come i tempi si meritano e anche come tu stessa ti meriti. Problema che spesso, quando ho tempo e voglia di pensarci, mi suscita grosse perplessità.
Dunque. Tu saprai, santa madre Chiesa, che qui a Viareggio, dal 21 al 24 aprile scorso è stato tenuto il decimo convegno nazionale dei pretioperai italiani (vi erano anche rappresentanti dei pretioperai francesi). Un convegno semplice e schietto dove la visione di Fede è stata tutta impegnata nella ricerca di un 'analisi dell'ingiustizia che imperversa nel nostro tempo e parti-colarmente nella fabbrica e nella società. Ingiustizia che si perpetua anche nella scissione fra una scelta di Fede e l'operare la giustizia. Non sto a raccontarti di tutto il convegno, anche perché penso che ti sarà arrivata tra le mani in qualche modo, la sintesi conclusiva dove assai chiaramente è accennato qualche cosa di quei magnifici, anche per fraternità serena e aperta, tre giorni e mezzo di convegno.
Non posso però non raccontarti anche se solo con un accenno, che per me, vecchio prete operaio,quel convegno ha significato come un dono. Perché è stato tenuto qui, nella mia città dove si è iniziata e allora sono durissimi tempi di solitudine e di isolamento, quest'avventura di un prete, che lascia la sua talare per sostituirla con la tuta operaia nel mantenimento e nella crescita del suo sacerdozio. Dopo ventitré anni quella solitudine era traboccata da una folla di fratelli preti, esistenze consacrate a Dio e alla classe operaia, ai poveri, agli emarginati, ai problemi e alle lotte di liberazione, di dignità umana, di fraternità cristiana.
Non ne abbiamo parlato e altro che nelle conversazioni a cuore a cuore, della lettera ai sacerdoti del papa in occasione del Giovedì Santo. E tanto meno delle sue dichiarazioni a un gruppo di sacerdoti di Bologna: dichiarazioni di così dura respinta nei nostri confronti. Non ci aspettiamo niente, santa madre Chiesa, ma se è possibile, da te e quindi dal papa, dai vescovi ecc. chiediamo di non essere indotti in tentazione e cioè come è sempre successo che non succeda ancora di «essere costretti a scegliere fra Gesù Cristo e i nostri compagni di lavoro», E poi ti chiediamo che tu ci liberi dal male e, cioè dalla distrazione senza senso del perpetuarsi di una diffidenza assurda, di una emarginazione ecclesiale preconcetta, disarmata, da una realtà di solitudine che scava inutilmente, a vuoto, ferite irrimarginabili...
Perdona la presunzione, chiamalo pure orgoglio, se preferisci, anche se non lo è, ma devo dirti, cara santa madre Chiesa. che non è che noi ci preoccupiamo che ci manchi la tua benedizione, ma è motivo di grande pena che tu non senta il bisogno, la necessità urgente e non diversamente rimediabile, del nostro Amore e della realtà operaia che noi portiamo nella nostra carne e più ancora segnata a fuoco nella nostra anima sacerdotale.
Ti confesso che in questi giorni, non so se tu santa madre Chiesa, li giudichi particolarmente gloriosi, del viaggio del papa in Polonia, sono rimasto senza fiato quando ho letto di un suo discorso nel sobborgo industriale di Nowa Huta, a Cracovia.
E poi due lacrime mi sono scivolate dagli occhi ma le ho subito asciugate per paura che mi si asciugassero col tempo come quelle che mi brillarono negli occhi al momento della proclamazione di Karol Wojtyla a papa.
Te le trascrivo qui perché tu le abbia nella memoria, cara santa madre Chiesa, queste parole. Sono le parole e più ancora per noi preti operai, anima e sangue, perdizione e salvezza, che ripetiamo da sempre con il solo torto di avere tentato di tradurle nella vita pagandone qualsiasi prezzo. Perché prete operaio in fondo significa soltanto che le parole che tu, santa madre Chiesa, ogni tanto spedisci nel mondo del lavoro non siano solo parole, ma Parola che si fa carne, Parole che si fa operaio, lavoro, lotta, condivisione, crocifissione, morte e resurrezione.
Per ovviare ogni equivoco e qualsiasi possibilità di ripensamento, queste parole del papa tra gli altiforni, avrebbero bisogno di precisazioni. Ma la traduzione pastorale dirà se sono parole di circostanza, sentimentali, stupidità o parole che ti cambieranno volto, santa madre Chiesa, fin quasi all'impossibilità di riconoscerti per quella che Sei stata fino a questo momento.
Lo so che può essere sciocca illusione la mia e ingenuità imperdonabile: ma forse è perché sognare continua per me ad essere l'unico modo di essere vivo.
«Il cristiano e la chiesa non hanno paura del lavoro. Non hanno paura (questo frasario mi lascia però alquanto preoccupato per antiche reminiscenze trionfalistiche) del sistema basato sul lavoro. Il papa non ha paura degli uomini del lavoro. Essi gli sono stati particolarmente vicini.
E' uscito di mezzo a loro. Facendo il lavoratore ha imparato nuovamente il Vangelo (nota bene, santa madre Chiesa, quel «nuovamente», e quante volte ti abbiamo ripetuto che non era tanto la classe operaia che aveva bisogno di te, quanto tu che avevi bisogno di imparare «nuovamente» il Vangelo!)...
E ancora: «Non si può separare la croce del lavoro umano. Non si può separare Cristo dal lavoro umano» (e le tue responsabilità per questa separazione, santa madre Chiesa?).
«Quando ero tra voi cercavo di rendere testimonianza di questo. Pregate affinché continui a renderla davanti a tutta la Chiesa e davanti al mondo contemporaneo».
Ti prego di dire al tuo e nostro papa, cara santa madre Chiesa, che anche i preti operai pregano per questa testimonianza specialmente perché non si riduca ancora una volta in parole, in gesti clamorosi, in un altra enciclica sui problemi del lavoro...
Con tutto l'affetto.


don Sirio


in Lotta come Amore: LcA luglio 1979, Luglio 1979

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