Sono contento che tu ci sei

Dopo aver scritto brevi righe sulla solitudine, nel numero precedente di Lotta come Amore, non vorrei essere preso per uno che ama stare da solo. Non sono di grande compagnia, questo è verissimo, ma non vorrei esaltare la figura dell'uomo chiuso in grandi progetti, che scruta oltre l'orizzonte i misteri di una saggezza preclusa ai comuni mortali. La solitudine è un grosso problema umano specie oggi.
I suoi risvolti sono spesso drammatici. Occorre recuperare il senso di una solitudine che appartiene alla condizione umana che sa di nascere e morire e di vivere dove niente è definitivo. Ma non è giusto sottrarre la solitudine al quotidiano per farne una delle mete della maturazione umana.
La vera solitudine va tutta spesa per costruire rapporti di amore.
Parole facili per un'esperienza difficile che desidera gratificazioni ed è incline a sentirsi dimenticata e non compresa dagli altri: l'esperienza di molti, se non di tutti, oso pensare.
Ricordo che, quando fui ordinato sacerdote quasi quindici anni fa, un prete, che mi ha dato molto e a cui poco ho risposto, mi diceva: «ricordati che una cosa importante è che tu abbia degli amici», E lo diceva, credo, per tutta. una saggezza sgorgata da un 'amara esperienza.
Ed è veramente una cosa molto bella l'amicizia. Anche se molto varia e diversa nelle tinteggiature dell'esperienza concreta.
Abbiamo bisogno di amici nel quotidiano, di persone con le quali possiamo sentirci più liberi fino a sfogare per mille rivoli diversi tutta la pressione che si accumula dentro per la fatica di vivere e sopravvivere.
Una battuta, uno scherzo, una lunga passeggiata, il gusto di fare qualcosa insieme, la gratificazione di qualcuno che ti ascolta e ti dà il senso di essere preso sul serio: un gioco sottile, ma necessario, delicato perché a tirarlo troppo si rompe. Un'amicizia che è una compagnia, dà colore e sapore al tempo libero, ma quando sono solo non riempie la mia solitudine.
C'è un rapporto umano che penetra dentro questa mia solitudine. Ed appartiene alla categoria dell'amicizia. Un'amicizia che può radicarsi anche nel quotidiano, ma spesso è fatta di rapporti profondi, coltivati in incontri densi di ricerca e di speranza, ma disseminati nel tempo.
Sono amici che spesso non vedo per mesi, per anni, ma sono presenti e vivissimi dentro di me perché rappresentano la solidarietà di un cammino faticato e sofferto verso un'umanità nuova e diversa.
E quando ci è data la gioia di un incontro è momento di grande felicità che si esprime meno nelle parole e molto di più nella serena constatazione della fedeltà all'esistenza: «sono contento che tu ci sei».
Certamente esiste il pericolo di idealizzare queste amicizie, di utilizzarle a sostegno della propria vita, negando loro ogni progresso, paralizzando il loro essere alla misura del nostro. Ma è proprio per questo, perché l'amicizia possa zampillare con la freschezza dell'acqua di fonte, che ci appartiene la condizione di solitudine. Non più ripiegamento sentimentale su di sé, ma conversione in valori positivi quali la povertà, la disponibilità, il servizio, l'accoglienza che sono tra i frutti meravigliosi che possono crescere unicamente su quella pianta che si chiama condizione umana, perché solo la solitudine che vi è inserita può fecondarne i fiori.
E' a questa condizione di amicizia che più si avvicina il mio rapporto con Dio, con Gesù Cristo. Non sono sicuramente persona di ferma disciplina interiore, né di delicata spiritualità. Può darsi quindi benissimo che questo mio rapporta con Dio nasconda chi sa quali crepe di incertezze e resistenze durissime. Sta di fatto che non mi sento estraneo a Lui nonostante uno stile di vita piuttosto «laico». Mi appartiene chiarissima la percezione di Dio come «colui che è». Il Dio della Rivelazione nell'Esodo, il Gesù Cristo del vangelo di Giovanni, Colui che dice di sé: «io sono». Certamente con tutta la ricchezza di sfumature e di significati che l'espressione nella lingua originaria esprime. E' questo «essere dentro» di Dio, questo «essere con» l'uomo fino a dividerne il destino di morte per seminare vita, che adoro nella mia vita e nella vita del mondo. Su strade non segnate da edicole sacre, su piazze non riparate all'ombra del campanile, in quella grande chiesa a cielo aperto che è l'umanità sbriciolata nella quotidianità del lavoro, del bisogno, della ricerca della salute.
Anche la mia preghiera si è molto «asciugata» dal tempo delle lunghe ore passate in ginocchio e delle liturgie con ritmi lentissimi. Non saprei dire se è meglio o peggio: non credo sia questo l'importante. Ritrovo antichi gesti e il significato del corpo nella preghiera, forse perché il lavoro che costringe a volte a posizioni insolite nello sforzo, risveglia «il gemito» della carne e delle ossa, anche quelle più dimenticate. C'è un gesto soprattutto che mi accompagna, ed è alzare un braccio come a cercar pace, a salutare qualcuno. E' un gesto consueto della gente, lento e solenne, sulla barca, nel campo, sotto il carro ponte, nel rumore assordante del lavoro o nella distanza abbacinata dal sole, quando la voce non serve e neppure il sorriso; solo una mano alzata. Per salutare, per accarezzare. Per dire soltanto: «ci sono», ci sono dentro come te, insieme a te nella vita, nella fatica, nella giornata, a tener duro, a stringere i denti, a sperare, a credere, a sognare. «Ci sono anch'io: pace fratello, pace mio Dio».


Luigi


in Lotta come Amore: LcA luglio 1979, Luglio 1979

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