Amici cari, mi chiedete, di riprendere, il discorso interrotto nella mia precedente.
In realtà codesto mio è più un monologo che un dialogo. Il problema mio è sempre lo stesso. Concerne la conflittualità delle esperienze, delle vite che ci si trova a vivere e che, proprio la fedeltà, impedisce di ridurre, impone di armonizzare. Questa volta accenno a due problemi che sento particolarmente cogenti. Entrambi nascono dall'esperienza quotidiana. Uno scaturisce dalla relazione tra preghiera liturgica e vita quotidiana e si situa nel contrasto profondo che sussiste tra l'orizzonte di mentalità, di linguaggio, di atteggiamento verso il quale ci proietta tutta la liturgia, e il modo di pensare, di parlare, di vivere che i membri stessi della Comunità credente adottano nella vita quotidiana. Codesto contrasto si coglie con minor immediatezza quando la liturgia non è presa sul serio e si riduce a ritualismo, quando ci si limita a pronunziare le formule e compiere. i gesti, senza riflettere seriamente a quello che effettivamente si fa, si proclama, si annunzia. Quando invece si prende sul serio il movimento, il dinamismo, il mondo concettuale, verbale e simbolico nel quale la liturgia cl fa vivere, si ha netta l'impressione di trovarsi in due mondi opposti. Perché, come sempre avviene in questi casi, non è possibile che entrambi siano veri, è necessario optare per uno di essi e decidere dell'altro con coerenza.
Personalmente mi sento sempre più profondamente portato a pensare che l'orizzonte liturgico è il vero, va preso sul serio, con assoluto rigore e con piena adesione di pensiero e di vita. Esso infatti non va visto come un insieme di riti da compiere ma come vita nella quale lasciarsi coinvolgere, come stimolo a diventare chi proclamiamo di essere stati costituiti. La liturgia è veramente la celebrazione della condizione nuova iniziata per tutti noi in Gesù Cristo, non è evocazione di quello che Egli ha compiuto, è annunzio di chi stiamo diventando e diventeremo con Lui. E man mano che codesta esperienza di vita insieme cresce, mi pare che anche l'esistenza si unifica maggiormente e, nonostante tutti i disagi quotidiani, cresce dentro la gioia di vivere. M'ero sempre domandato che legame intercorresse, per esempio, nella vita dei sacerdoti, tra la celebrazione dei Sacramenti e il ritmo della preghiera quotidiana. Consideravo l'una e l'altra come cose da fare, obblighi da assolvere, impegni da soddisfare. A un certo punto, quando l'Eucarestia ha cominciato a diventare una vita da portare avanti insieme, un'esperienza di comunione da costruire, un procedere in sintonia, anche la preghiera ha assunto un altro aspetto: cominciò a diventare il prolungamento nella vita quotidiana della gioia dell'esperienza di vivere insieme, di collaborare in un medesimo progetto, di accogliere e mettersi a disposizione.
Vorrei poter parlare con voi di tutto questo perché mi sembra molto bello anche se diventa fonte del conflitto che deriva dal constatare quanto la vita quotidiana sia diversa da tutto ciò. Sembra proprio di essere una persona dalla doppia, tripla vita. Una volta si diceva: santo in chiesa diavolo in casa, ora pare di viaggiare in due orbite diverse, contrastanti. Non è possibile armonizzare codeste vite in una sola fedeltà, restano due. Voglio essere radicato nell'umanità che aspira ad essere umana, interpretarne l'incomprensione, la difficoltà di contarne, elaborarne aspirazioni e stili di vita e sperimento il rifiuto, l'incomprensione, la difficoltà di conciliare il mondo umano e l'orizzonte che nella liturgia è fonte di pace.
Una proposta porterebbe a optare a radicalizzare le scelte, abbandonare una delle due realtà, ma non è possibile seguirla.
Sarà mania di onnipotenza e di ubiquità, sarà incapacità di abbandonare persone di carne e ossa; sarà immaturità, sarà fedeltà: non so.
Di fatto mi sento lacerato. Il cuore è per quelli che vivono nel quotidiano e nel quotidiano mi trovo estraneo perché l'aspirazione è per la realtà che amo e che invece sembra non dica nulla alle persone che vivono.
Costoro non si fidano perché non ti trovano «disponibile» ai propri progetti e quelli che sembrano sintonizzati nel mondo del mistero ti considerano qualcuno che non va fino in fondo, frenato dai «ma», dalle riserve, dalle attese. E hanno ragione entrambi. La nostalgia è per un'umanità giusta, fraterna, aperta al mistero, per una comunità in cui Gesù Cristo è presenza, dimentica di sé e sollecita solo di condividere la misericordia di Dio per la creazione tutt'intera, trascurando tutto ciò che divide per favorire ciò che permette a donne e uomini di essere soggetto nella comunione che si nutre di relazioni interpersonali autentiche in cui gli alibi non frenano l'inventiva della comunione nell'amicizia e nella giustizia e la docilità dell'apertura a Dio. Mi convinco che tutti gli inviti che Dio ci rivolge vanno verso codesta meta, ma i pregiudizi di tutti i tipi legittimano e rinsaldano la resistenza, il rifiuto a codesta condivisione. E l'umanità soffre, la gente semplice, debole, si suicida, fugge nel piccolo gruppo in cui si sente accolta; i più duri uccidono, manipolano, esercitano la violenza.
Da soli è impossibile vivere, in comunione è difficile perseverare eppure, senza comunione i singoli non vivono e senza il riconoscimento dei singoli le comunioni finiscono.
Gli essere umani sono tutti uguali ma l'uguaglianza umana è la diversità. Siamo tutti uguali per il fatto che ciascuno di noi è se stesso e nessuno è lo stesso dell'altro.
Ciascuno ha il diritto e il dovere di essere se stesso in comunione con altri, di essere riconosciuto nella propria diversità e di riconoscere la diversità degli altri non in pluralismo di indifferenza ma di tendenza all'unità della comunione. Il problema delle democrazie sono le minoranze, sono i diversi e nella categoria dei diversi entra ciascuno perché ciascuno è diverso dagli altri, né più né meno degli altri, e tutti i diversi hanno diritto e dovere di essere accolti nella comunione, di diventare soggetto. Per non riconoscere codesta verità che mi pare chiarissima, abbiamo formulato tutta una serie di distinzioni e di teorie le quali servono solo a legittimare il rifiuto di volersi persone che costruiscano comunione con i diversi e che lavorino perché i diversi diventino costruttori di comunione, aperta a tutti e sintonizzata col mistero. Quest'utopia in Gesù Cristo è la verità che è la chiave ermeneutica di tutto il suo messaggio e di tutta la liturgia.
Gesù Cristo ha insegnato che donne e uomini sono tutti figli di Dio, tutti sono chiamati a diventarlo e a essere contenti di esserlo, e tutto ciò che Egli ha detto, fatto, chiesto di dire e di fare ha il solo scopo di metterci e mettere in condizione di essere e vivere da figli di Dio, aperti al Padre, in condivisione reciproca, in responsabilità per la creazione, in permanente realizzazione del Regno. Questo mi pare tutto il Vangelo, i Sacramenti, la morale.
Se codesta volontà di disponibilità manca, tutto diventa legittimazione di difese, di barriere, di manipolazione, di esclusione. La cosa più urgente oggi è centrare il messaggio e per farlo dobbiamo aiutarci a essere onesti fino in fondo verso la verità del bene umano.
Ora mi pare che la liturgia sia la celebrazione di questa comunione che cresce, l'alimento di coloro che la costruiscono, lo stimolo a renderla più bella e armonica.
Deve cadere la barriera tra vita liturgica e vita quotidiana, tra personale e politico, tra uomo e donna perché l'umanità maturi la libertà di diventare feconda e creativa nella costruzione dì legami che non si limitano alla dimensione interumana ma investano la relazione con Dio.
E' questa la speranza del duraturo, dell'eterno che ci portiamo dentro, è rompere la barriera del limite che ci imprigiona, è verificare nell'esperienza ciò che proclamiamo nell'annunzio e annun-ziare ciò che l'esperienza conferma. Mi sembra una bella «utopia» e vorrei condividerla sempre più con voi.
Dalmazio
in Lotta come Amore: LcA luglio 1979, Luglio 1979
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455