Dalla comunità degli amici

Sono passati sette anni e mezzo dal nostro incontro, e una volta tanto credo che non sia retorica dire che nel frattempo la realtà è cambiata come se invece fosse passato un secolo. In questi anni la vostra testimonianza mi è stata di grande aiuto, perché nel continuo succedersi dei sottofaccia cui ho dovuto assistere è stato. un conforto sapere che c'era qualcuno in grado di rimanere libero e fedele a se stesso.
Non voglio però lodarvi troppo perché penso che non sia questo che vi aspettate dagli amici, quanto piuttosto un loro apporto. E' già molto tempo che cerco di fare un'opera di ripensamento su tutte le esperienze passate. I risultati?
Incerti, devo dire. Ho raggiunto però alcune conclusioni che, seppure minime, mi sembrano tali da consentire una ripresa dell'impegno in ma do più adeguato e concreto. Ho cercato innanzitutto di rivivere con la mente i tempi del mio primo impegno comunitario e sociale, il senso di libertà ed autosufficienza che provavo allora. Le comunità di base erano l'espressione di un bisogno di partecipazione in prima persona, di creare un rapporto non mediato con Dio. Erano l'esatto contrario del motto gesuitico «non far niente senza il vescovo». Non solo non si aspettava il vescovo, ma si faceva volentieri a meno di lui.
Da ciò nasceva uno spirito di iniziativa ed una attività incessante capace di risultati incredibili. Mi sorprendo io stesso del potenziale che si era in grado di esprimere allora, di come si riusciva a mobilitare, organizzare e far partecipare tante persone. Bei momenti, certo. Ma c'era già in sottofondo delle grosse ambiguità. L'esperienza comunitaria se da una parte andava nel senso dell'impegno e della responsabilità individuale, dall'altra costituiva una sorta di rifugio per le proprie crisi esistenziali, un palcoscenico per il proprio entusiasmo, una palestra per la propria intolleranza. La comunità era sottoposta a continue tensioni causate dal chiedere ad essa ciò che non poteva costituzionalmente dare, cioè una copertura buona per tutti gli usi. Questa copertura la si è cercata sui gruppi politici, sul rapporto con gli apparati. Si è cominciato a cercare l'appoggio del «vescovo» per ogni cosa da fare. La realtà attorno intanto cambiava, la crisi economica ha avuto un effetto devastante sui rapporti sociali, sulla mentalità della gente. Si è diffusa una paura di essere se stessi e si è cercata la propria identità con l'adesione ad un apparato.
Per quanto mi riguarda credo che mi sia venuta in aiuto la mia patologica pigrizia, cosicché non ho cercato minimamente di cambiare e di adeguarmi al mutare della direzione del vento. A volte tradire se stessi comporta un notevole sforzo, non è affatto facile come sembra, svendere il proprio lavoro richiede spesso fatiche penose. In questo senso direi che qualche volta mi sono trovato di fronte a dei veri eroi, gente disposta a bruciare amicizie e stima, a creare attorno a sé un clima di diffidenza e sospetto, a sudare le classiche sette camice, pur di portare a termine l'opera di svendita sotto costo della sua personalità e della sua immagine altrettanto faticosamente costruita.
E' stata una ventata irrazionale che ha travolto tutto e tutti. Vi assicuro che se vi fosse stato un minimo di interesse personale da soddisfare a motivare tutto questo, forse avrei capito e in qualche caso anche giustificato, ma così l'accaduto è rimasto per molto tempo per me incomprensibile.
Molti dei miei schemi mentali sono saltati, specialmente l'abitudine di mettere le cose in termini di egoismo e altruismo. Oggi non riesco a dubitare che nel furore di tradimento di se stessi e degli altri di molti di coloro che ho conosciuto ci fosse anche qualche motivo altruistico.
Del resto perché Giuda tradì Gesù? Non certo per il benessere materiale che gli poteva apportare una meschina somma di denaro.
La paura di essere liberi è alla base di tanti comportamenti, ora come in passato.
Prendete queste mie rozze riflessioni un po' per quello che valgono, come primo risultato di una esperienza personale molto limitata e approssimativa .

* * *

Voglio dirvi che sono contenta per il solo fatto che ci siete. I primi tempi in cui ricercavo il vostro giornale mi sembravate un pò «strani» perché il vostro discorso era completamente nuovo per la mia esperienza.
Poi ho capito.
Non siete di quelli che predicano dal pulpito (non importa che ci sia materialmente: è come se ci fosse) e che sanno sempre cosa è giusto o no.
Voi vivete: siete dentro gli uomini.
E' semplicemente perché siete che il giornale esiste. E' una testimonianza, un ritrovarsi insieme, un riconoscerci nelle stesse esperienze: un arricchirsi.
Per me è anche un crescere nella fede, è l'aver scoperto che la fede non è quel magico jolli che ti salva in qualsiasi occasione, è qualcosa di cui non sono capace di parlare.
Ecco il vostro giornale è un piccolo grande aiuto per scoprire cosa significa vivere con fede.

* * *

Ti scrivo con l'amarezza dentro per la strage fascista a Radio Città futura, e con la rabbia di assistere a tutti questi episodi di violenza e di intimidazione quotidiana, senza essere realmente organizzato con i giovani, donne, emarginati, che sono insoddisfatti per questa vita, per questa società, per queste ingiustizie, ma che purtroppo, come molti di noi, assistono assuefatti e sfiduciati ad una crisi che, secondo me, si fa sempre più profonda e diventa sempre più dolorosa per noi.
Certo questo non ci deve spingere a mollare tutto, anche se la tentazione è forte; è forte però anche la convinzione della inutilità di una vita preservata e non compromessa nelle lotte di liberazione. Ognuno nella propria realtà, cerca di creare un'aggregazione che riesca ad opporsi a questo stato di cose, che tuttavia spesso ci travolge senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. Questa disgregazione, questo stato di cose che sembra eterno ed irreversibile, spinge tanti come me ad abbandonare, o a scegliere la via diretta della violenza. Ma sia l'una che l'altra risposta creano maggiore disgregazione, maggiore scetticismo, maggiore chiusura delle mentalità, maggiore clima di paura, di restaurazione autoritaria, di impotenza ed inazione di massa.
Ecco allora chiaro il valore che ha una presenza di fede, un credere nell'utopia da realizzare, un aver speranza nell'agire anche la dove tutto sembra buio ed «irreversibilmente inesorabile», che è la presenza del cristiano, come segno di contraddizione, di lotta permanente, di fiducia nelle lotte intraprese, per la dedizione totale alla Verità, a Dio, alla giustizia e all'amore da realizzare nel mondo tra gli uomini, soprattutto quando, come in questa epoca tutto crolla, nessun appiglio razionale sembra esistere, tutto è condizionato da giochi di potere, da interessi egoistici, da una dimenticanza totale del valore dell'uomo in se stesso e del suo rispetto.



in Lotta come Amore: LcA febbraio 1979, Febbraio 1979

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