Deserto fiorito

Carissimo
il tono così intimo del tuo foglio sollecita le confessioni; né io voglio sottrarmi al tuo invito che era anche a una testimonianza in prima persona; benché questo termine, di cui si fa oggi grande abuso, mi sembri da lasciare, secondo l'etimologia, ai martiri; e noi accontentarci di parole più modeste. Diciamo «resoconto» di alcuni stati d'animo e situazioni di vita che può essere utile e fraterno comunicare.
Comincerò col dirti la perplessità e il netto rifiuto che ho provato di fronte alla prima parte del tuo articolo «Il quotidiano e la fede», dove si affermava che «come tutto anche la Fede ha bisogno dell'eccezionalità, lo straordinario la provoca e l'accende, ... mentre rimane esposta al logoramento quando il silenzio l'avvolge... ». E seguitavi a lamentare «La materialità del quotidiano con l'oppressione del suo grigiore ...il tritume della banalità quotidiana...» e così via. E per fortuna che, alla fine, ti «converti», ammetti che «la banalità non è misurabile dal vuoto di cose importanti, ma dal vuoto di valori dello spirito umano» e che bisogna «riconoscere, a questa sbriciolatura del quotidiano, i suoi precisi valori... e allora anche il quotidiano, qualsiasi quotidiano, è adorabile». A questo punto, vorrei riprenderlo e raccontarti come sia giunta a infastidirmi, di fronte all'eccezionalità, e ad amare, con grande trasporto, il quotidiano.
Uno dei miei primi libri - un romanzo - aveva il titolo, già di per sé, significante: «Giorni feriali». Era la storia di un parroco che, dopo avere rincorso l'impossibile impegnando una folle battaglia contro il limite, alla fine si accorge che proprio nel limite l'infinito si colloca (e non è questo il senso dell'Incamazione?) e nel feriale (evidente sinonimo del quotidiano) si esprime la straordinaria festa dello spirito. L'eccezionalità si fa tutta interiore e il libro termina in «uno di quei tanti giorni in cui non c'è niente da narrare e tutta la vita da dire».
Quel parroco mi ricalcava, e la sua storia era un po' la mia storia.
Chi afferma che i libri son sempre autobiografici, ha ragione; solo bisogna, di volta in volta, intendere in che modo lo siano. Io, in quel libro, attraverso una vicenda che mi era cronisticamente estranea, esprimevo la storia interiore di una lotta, se vuoi, metafisica del limite, della ferialità, della quotidianità, del succedersi eguale e monotono dei giorni, contro il fiammeggiare eterno ed indicabile dell'infinito. Non accettavo che quell'ineffabilità, potesse frangersi nelle parole e tradursi nei tristi discorsi quotidiani del « buon giorno, buona sera,» quello che noi diciamo parlare «del più e del meno». Una battaglia di quel genere (che poi è l'eterna vicenda di Icaro, di Prometeo e di innumerevoli miti, a cominciare forse dal Genesi: «sarete come Dio») non può essere vinta da un uomo ma solamente da Dio stesso. E infatti è stata vinta dal Cristo e da noi solo in lui. Da una battaglia simile si può uscire sconfitti, disincantati, immiseriti, oppure si può uscire riconoscendo che proprio il limite, il tempo, i giorni (e tutti i giorni, e non solo quelli eccezionali) sono il luogo d'incarnazione dell'Eterno. E allora quell'Eterno lo si incontra proprio nella quotidianità.
Scusami, forse ho teologizzato un poco una vicenda esistenziale di una grande drammaticità e che non sempre necessariamente ha chiari i sotto fondi teologici del problema ma che incontra veramente Dio, a livello esistenziale, e sperimentale, nella propria vicenda quotidiana. E allora il mito dell'eccezionalità, dello straordinario «che provoca ed accende», come dici tu, le sembra un mito romantico, che è necessario attraversare ma che è necessario superare.
Attraversare, sì; perché non si nasce nel quotidiano ricco: si nasce nel quotidiano povero e grigio; e occorre romperlo, talora con violenza, entrando in quel mito dei grandi gesti e delle eccezionali avventure. L'agiografia è piena di gesti eccezionali e traumatici: sono la rottura di un quotidiano grigio e povero per la conquista di un quotidiano denso e pieno. Chi non conosce questo passaggio rimane a stadi elementari di esperienza interiore; chi non lo supera rimane in una tappa adolescenziale e romantica, diciamo pure immatura. Si può vivere intensamente anche questa tappa intermedia; e noi conosciamo dei santi che vi si sono arrestati; ma i più - quelli la cui santità si è compiuta con un arco di vita e di esperienza più vasta - alla fine recuperano un tono e un ritmo di dolcissima, colma densa quotidianità. Scompaiono perfino quelle somatizzazioni contemplative note sotto la denominazione di fenomeni mistici straordinari. Scompare lo straordinario, a tutti i livelli e resta la quotidianità.
Ora mi sembra di averti fatto una brutta e sommaria teologia e una non meno brutta e schematica agiologia di un problema che per me è una grande passione esistenziale. Perché oggi io amo il quotidiano, con un amore di predilezione somma; e so e sento che è in esso che sopratutto abita Dio; e non vorrei che avesse un'altra casa. Né io vorrei altri gesti, nelle mie mani, che non fossero quelli di tutta la gente: gesti semplici e che pure coinvolgono la vita alle radici, perché noi ci coinvolgiamo in essi pienamente.
E questo è il solo straordinario che cerco: compiere, con eccezionale intensità, i gesti di tutti, sperando che tutti raggiungano questa densificazione del quotidiano, sicché, nemmeno a questo livello soggettivo, vi sia nulla d'insolito.
Anche se il mio genere di vita non è frequente, cerco di viverlo nello stile più ordinario possibile, senza differenziarmi dagli altri e senza che nessuno abbia a voltarsi e a indicarmi col dito. Il santo che io amo è un poveruomo che svolta, cheto cheto, sulla strada e nessuno se n'accorge. Poi forse tutti si accorgono che è passato, per un di più d'amore c di stupore che ha lasciato loro dentro.
Anche di stupore. Quanto è obiettivamente falso il riferimento alle «stesse cose» che spegnerebbero la nostra freschezza interiore! Sì la nostra freschezza può ben essere spenta, ma non dalle «stesse cose».
Non esistono «stesse cose», a livello di comportamenti, di gesti, di vita: esistono solo cose nuove, gesti inediti e irreperibili, perché quelli che porremo domani, anche se simili, non saranno gli stessi.
Il tempo ce li consuma tra le mani e ci «condanna», felicemente, alla novità. Sì: viviamo nell'inedito; e il mattino che vivo oggi è unico: non sarà mai più ripetuto e rivissuto.
Ogni giorno e ogni gesto ha lo stupore della sua novità: è una scoperta di mai visto.
Ecco: noi viviamo immersi in questa novità perenne e non ce ne accorgiamo e parliamo di tedio, di ripetizione.. Quando parliamo di banale è che la banalità ci è entrata dentro. Solo gli uomini sanno essere banali; non la realtà, non la vita.
Non ci sono piccole o grandi cose: ci sono solo piccoli e grandi uomini. E l'uomo davvero grande non ha bisogno di grandi gesti per esprimersi: gli bastano i gesti d'ogni giorno. Dentro ciascuno di essi c'è il peso e il turgore della vita.
Scusami, Sirio, sto parlando troppo, io che ho scelto il silenzio e che detesto i discorsi edificanti; essi pure, una sorta di straordinario, di ornamento spirituale. Allora smetto subito e, se nella mia cascina solitaria, capiterà oggi qualcuno - magari il contadino che coltiva i campi qui intorno - parlerò solo «del più e del meno», della stagione e dei raccolti. In questi discorsi quotidiani, che un tempo avrei ritenuti banali, che spesso rendiamo banali, possono identificarsi, fino a diventare profondità di vita e di preghiera. Che il Signore ci aiuti, Sirio caro, a non aver bisogno di occasioni speciali, di particolari e. sacrali luoghi e tempi (e non è, anche la sacralità, una sorta di eccezionale, avulso dal contesto umano?) ma a saperlo incontrare sopra alle nostre strade: le semplici strade di tutta la gente. Un eremita si dice che va nel deserto; ed è vero (è il suo momento romantico). Ma poi il suo deserto fiorisce e si fa una cascina, piena di gatti e di conigli.
Ormai le mie bestie son diventate note, in Italia, ed io oggetto di qualche ironia per causa loro. Non mi preoccupo; li lascio dire. Le bestie sono importanti. Esse pure sono la quotidianità della vita, pulsante sotto ogni pelo. Un contadino, un uomo di campagna, non saprebbe vivere senza. Nemmeno io lo voglio. Potrei fare dell'ascetismo, privandomene. E sarebbe ancora il gesto fuori del comune. L'ho fatto. Ora non lo faccio più. Preferisco vivere la quotidianità, con le sue situazioni più normali: un cane che fa la guardia, un gatto che fa le fusa, una gallina che fa l'uovo, Ed io che non digiuno: lo mangio.
Forse ti parrà poco ascetico. E allora prega per la conversione.
Con affetto grande.


Adriana Zarri


in Lotta come Amore: LcA febbraio 1979, Febbraio 1979

menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -