Nei tre numeri precedenti di questa nuova serie di «Lotta come Amore» ho scritto brevissime storie di morte. Non so perché ho iniziato ed ho sentito il bisogno di continuare ad esprimere semplici riflessioni su avvenimenti certamente drammatici. ma purtroppo così frequenti nel tempo che viviamo. Non credo di essere tentato da tristezze romantiche o peggio spinto da un discutibilissimo gusto del macabro. Mi sembra di comprendere che non è tanto la morte che mi interessa quanto la vita e tutto ciò che alla vita appartiene, quindi anche la morte.
La morte violenta è compagna instancabile della vita quotidiana nei luoghi di lavoro, nel traffico intenso solcato dalle ambulanze, nelle istituzioni sanitarie. dove spesso si guarisce la malattia e si toglie di mezzo l'uomo.
Dal mio banco di lavoro sento nascere l'urlo delle sirene dei mezzi di soccorso, mi fascia il cuore di opprimente silenzio quando si allontana verso l'Aurelia e l'autostrada, mi chiude in gola un senso di paura quando cresce violento e fugge davanti agli occhi verso i cantieri e la spiaggia. Specie d'estate subito dopo pranzo quando sfiniti da lunghe ore di giochi, si cerca refrigeri nell'acqua arroventati dal sole, o, sul lavoro, annientati dalla fatica e dal caldo ci si muove lenti e disarticolati come astronauti in assenza di equilibrio.
Perché un altro e non io: Perché a me é dato di continuare a vivere, e sono già quasi quarant'anni, mentre altri incontrano la morte negli identici gesti quotidiani che tante volte anch'io ho compiuto, in quelle disattenzioni da niente che provocano il disastro che tante volte ha sfiorato anche me senza però afferrarmi? Cos'è questa vita che continua a nascermi davanti, strada su cui cammino ormai da tanti giorni? E' semplice caso alla cui buona sorte mi devo abbandonare? E' cieco Destino cui non posso sottrarmi? E' dono che scaturisce da un progetto d'amore? La morte riflette una risposta ed essa stessa interroga la vita.
Credo proprio che sia stato l'interrogarmi sul senso della mia vita che mi ha fatto incontrare la morte. Non ho mai avuto tanta voglia di vivere quanto ora e mai come ora mi sono apparsi in evidenza i chiaroscuri di una vita forse troppo incerta e ripiegata, comunque da sempre molto frenata. Non troppo buona, non troppo cattiva questa mia vita, ma il punto non sta nel "buono o cattivo" quanto in quel "non troppo" che ne definisce i limiti di vita non esaurita in pienezza. Affermo queste cose nella serenità di una constatazione che non mi deprime e neppure mi angoscia perché la coscienza del proprio essere è sempre più dolce delle tensioni che affiorano dall'inconscio.
Così la coscienza di dover morire. Certo, suona diversamente questa frase sulla bocca di un ottantenne, ed allora è forse meglio dire la coscienza che la vita è una sola.
Quest'estate ho ripreso la strada in solitudine. Con la sola compagnia di una «Vespa» e di una tendina ho percorso più di 4000 km. nel Sud dell'Italia. Non é stato un tuffo nel passato, una voglia strana di ritornar giovane che mi ha spinto a questo. Ci sono stati, è chiaro, anche motivi di ordine contingente, ma sopratutto la constatazione (eccola ancora una volta con tutto il suo colore di chiara presa di coscienza) di una «solitudine» che non mi pesa perché la sento condizione ormai di una grossa accoglienza e non una difficoltà da superare a tutti i costi per arrivare ad incontrare qualcuno.
Nella tasca dello zaino ho portato con me due libretti. La «Storia della morte in occidente» di Philippe Ariés (da cui attinge molto per l'ultima parte di «Nemesi medica» Illich, e «Le immagini della morte nella società moderna» di Werner Fuchs. Certo non li tenevo troppo in vista perché mi sarei potuto attirare giudizi ben poco lusinghieri da chi pensa che una vacanza sia dopotutto una... Vacanza, ma me li sono letti con grande pace, continuando quella ricerca interiore che mi sta portando dal prevalente «lottare contro» al «vivere per» o forse tutto sommato più semplicemente e pienamente alla vita, fosse pure questa di solo poche ore.
Questi due libretti portano tesi contrastanti. Lo storico Ariés conclude e si chiede: «In ogni caso, questo eloquente scenario di morte (riferito al costume del XIX secolo) si é dissolto nell'epoca nostra, e la morte è divenuta l'innominabile. Ormai tutto avviene come se né io né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria. Ma in verità in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali. E sorpresa, la nostra vita non sembra per questo più lunga! Esiste una relazione permanente fra l'idea che si ha della morte e quella che si ha di sé? In tal caso bisognerebbe forse ammettere da una parte un indebolimento della volontà di essere nell'uomo contemporaneo, al contrario di quanto avveniva nel secolo Medioevo, e dall'altra l'impossibilità per le nostre culture tecniche di ritrovare l'ingenua fiducia nel Destino, che per tanto tempo gli uomini semplici hanno manifestato morendo?».
Dall'altra il sociologo Fuchs contrasta questa ed altre simili posizioni che secondo la sua interpretazione operano in due tempi: dapprima la morte viene innalzata a simbolo della negatività della società moderna. In una seconda fase le si attribuisce la funzione di ultima carta da giocare contro questa società: l 'imposizione vincolante del ricordo della morte si rivela come strumento contro gli aspetti fondamentali della società industriale contro la quale la cultura critica si é mossa dai suoi inizi. Egli propone di abbandonare questo taglio del problema per riferirsi al concetto di morte naturale (come evento che in sé chiude la vita) per porre tutta l'attenzione sulla vita e fare in modo che non sia la morte a dare vita, ma la vita a produrre vita. Non «ricordati che si deve morire» ma «ricordati che si deve vivere», se una contrapposizione di questo tipo può in qualche modo interpretare il suo pensiero.
Ma non voglio assolutamente entrare in questioni di interpretazione.
Desidero molto più semplicemente comunicare un problema, quello del morire, che credo possa avere molta importanza per chiarire la qualità della vita che vorremmo vivere. Il parlare della morte trova oggi più ascolto di qualche anno fa quando tutto era relegato nella sfera magicoreligiosa. Credo che uomini e donne che amano la vita e desiderano viverla in pienezza non possono evitare una chiarificazione sul problema della morte. Per questo vorrei che questo mio abbozzo di riflessione che parte da considerazioni molto personali, potesse costituire l'inizio di una riflessione allargata e comunicata anche su queste pagine. Se questo interessa e volete scrivere qualcosa, sarò molto contento di poter garantire una continuità a questa riflessione, attraverso l'apporto di altri.
Luigi
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1978, Ottobre 1978
Luigi Sonnenfeld
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