Chiedo perdono

Se mi mettessi a chiedere perdono forse sarebbe sempre poco se in ginocchio percorressi tutta la terra: e mi dovrei fermare davanti ad ogni uomo e donna e li, in ginocchio, implorare pietà.
Pietà di che cosa?
Non di peccati o di cattiverie, di stupidi egoismi e sono tanti, d'invidie e gelosie e di tutta una miseria senza misura (è la pasta di cui sono impastato e non mi posso detestare e tanto meno voglio odiarmi ma umilmente voglio amarmi accettandomi con pazienza e sopportandomi con gioia).
I peccati sono momenti di stupidità, sono situazioni di pazzia: non richiedono misericordia o perdono ma semplicemente comprensione. Difatti non ci è permesso nemmeno il giudicare, tanto meno ci può essere concesso il perdonare. Di Dio soltanto è il perdono perché è Dio e Dio solo può riempire il nulla e accendere la luce nel buio.
Non chiedo perdono di peccati: può darsi anche che non ne abbia di peccati anche se ne ho tantissimi, che forse nemmeno riesco a conoscerli e tanto meno a numerarli. So che Dio li conosce perché mi conosce e questo mi basta per il mio esame di coscienza.
Ma nonostante, sono terribilmente in pena dal profondo bisogno di chiedere perdono.
Perché maturano nell'andare avanti nella storia della vita disagi ma potrei dire profondissime angosce, capaci di creare misteriosi sensi di colpa. Diffusi, penetranti, continui, letteralmente impietosi. E' praticamente impossibile dissiparli, risolverli perché mettono in evidenza richieste di riparazione o anche cambiamenti cosi radicali da risultare impossibili, pazzeschi. E cosi tanto da comportare l'impressione che non c'è nulla da fare. E si ricade pesantemente sulla propria inerzia, a girare nel proprio vuoto, a perseverare nell'inutile, cioè nella rassegnazione alla propria miserabilità.
Per indicare qualcosa di quello che sto pensando racconterò di quello che mi passa nell'anima, ma è chiaro non tanto perché sia importante o valga semplicemente qualcosa quello che attraversa il mio spirito e imperversa nella mia vita interiore, ma perché penso che il mio scrivere sia mettere in comune i miei problemi con i problemi di altri, potrei anche dire, senza offesa di nessuno, di gente strana come me, che non intende acquietarsi o adattarsi e tanto meno rassegnarsi, nonostante che sia molto vero che anche ad agitarsi e a tormentarsi non è che si risolva niente. Ma almeno in pace non ci vogliamo stare e può darsi che questa sia l'unica onestà di tutta una vita.
Se mi permetto di dire di me, è chiaro, non è perché io sia qualcuno o valga qualcosa. E' semplicemente per il fatto molto semplice che se il vento agita gli alberi qui intorno a casa mia, li agita senza dubbio anche nella pineta qui accanto, sulle colline là in fondo, sento che sta infuriando sul mare. Cosi la pioggia. Cosi il sole. Cosi la primavera.
Quando si parla o si scrive di noi stessi non è mai di noi stessi, è racconto di vita, di esistenza, è vicenda di tutti.
Dunque parliamo di noi e quindi io vi racconto di me, di questa povera umanità che è il mio corpo e l'anima mia e dell'acqua e dello spirito di cui sono fatto e di cielo e di terra. Del nulla e dell'universalità che è il mio essere. Di uomo e di Dio perché questa è la mia realtà.
Ma ciò che più mi percuote e mi umilia e mi sgomenta - quasi a volte mi sento sull'orlo dell'angoscia - è la coscienza di peccato che mi si dilata dentro.
E peccato qui è un cristallo trasparente che è opaco come pietra. Una strada aperta fin oltre l'orizzonte senza essere camminata altro che per pochi passi. Un sole all'aurora in un cielo tersissimo a illuminare il mondo, diventato e rimasto una candela e spesso dallo stoppino fumigante e stanco. Un cielo a volta infinita gremitissimo di stelle e una carta azzurra da presepe con stelle di stagnola...
Non sono rammarichi e tanto meno sogni velleitari incompiuti e quindi delusioni amare per glorie e grandezze perdute. No, no, è semplicemente coscienza (è terribile questa parola quando vuoi dire sapere con estrema chiarezza, a misura di evidenza totale, assai più che toccare con mano e vedere con gli occhi) coscienza, dicevo, di avere lasciato impoverire il mondo privandolo di una sincerità, di una risposta, se non altro, della fatica vissuta fino in fondo, di una ricerca.
E perché questo senso di colpa sia vero e non stupida presunzione, non è affatto importante essere qualcosa (ecco, tu potevi essere un re e sei invece una cacca, nel qual caso potrebbe anche essere una fortuna per tanta gente essere rimasto una cacca e non un re o un presidente della repubblica o un papa e cosi via...) ma anche un granello di sabbia è perseguitato dall'obbedienza alla sua identità e anche un capello del nostro capo è numerato dentro un conteggio e una precisa programmazione e anche a un passero sul tetto è assegnato un motivo preciso e porta in se un progetto, compreso il momento in cui cadrà sull'erba del prato.
Perché ciò che forse non abbiamo mai conosciuto con chiarezza ma soltanto per approssimazione come quando si fanno le cose e si dice «speriamo bene», è il rapporto esatto fra noi e l'esistenza, cioè che cosa si doveva dare, in coscienza, alla vita usando della vita, cosa offrire in cambio di tutto quello che mi sono preso.
Nel problema dei diritti e dei doveri è il più imbrogliato, falsificato, sporco e vergognoso questo problema di semplice giustizia - non possiamo non rimanere sconvolti dal tremendo giudizio di condanna che ci sovrasta: perché è spaventosamente vero che con sfacciata disinvoltura viviamo allegramente sulle spalle, la fatica, la sofferenza, il morire di un'infinità di gente, pagando con gli spiccioli dei nostri cosiddetti servizi o cose del genere.
Esattamente come il puttaniere paga la prostituta e non ci pensa più: quattro soldi per il corpo di una donna e tutto è a posto. Sono attraversato, ferito dalla coscienza di essere responsabile di questa ingiustizia: ho preso tanto, tutto, perché mi sono preso il vivere - il fiume di vita che scorre da millenni fino a me - e non ho dato nulla o appena le briciole che sono cadute dalla mia tavola.
Non è un peccato di omissione: categoria morale inventata per coprire bellamente il peccato di ingiustizia, di ladrocinio, di stupro e di fornicazione, di sfruttamento, di sanguisughe e di assassinio privato e pubblico, individuale e politico ecc. con la storiella di aver dimenticato le preghiere, lasciata la Messa la domenica o di dare mille lire a un bisognoso e cosi via.
É il peccato di sedersi su un trono e il mondo sotto i tuoi piedi. E non basta per farti perdonare che a tua volta tu sia uno sgabello dove poggiano i piedi di un altro. Anzi, questo aggrava la tua responsabilità perché accetti e ribadisci gli anelli di una catena di schiavitù e di sfruttamento, per il tuo tornaconto, invece di liberarti e liberare: è il tuo interesse a regnare nel tuo regnicolo personale, a stabilire e determinare la tua servitù.
E allora da qualche tempo - è triste pensare che tanti anni mi sono occorsi perché riuscissi a vedere quattro dita più in là del mio naso - mi angoscia il pensiero - parlo cosi, per similitudine, perché più cose, quasi tutte, si possono dire parlando per immagini - di aver mangiato tanto pane nella mia vita. Fin da ragazzo troccoli enormi di pane e poi grosse fette e anche ora, nonostante gli acidi urici, mi continua gioiosa e simpatica la voglia di pane. Pane odoroso di forno, tanto più se forno di contadini, traboccante di profumo che sa di vita, d'intimità di casa. di mistero d'amore. Pane che quando so che in casa ce n'è in abbondanza mi si riempie l'anima di pace. Pane e un pezzetto ne uso anche per la Celebrazione Eucaristica e so e credo che diventa e è il Corpo di Gesù Cristo.
Morirò e ogni giorno che passa è morire perché ad ogni sera non ho vissuto il motivo di tutta la vita, morirò e non ho seminato un chicco di grano. Non ho zappato e concimato dieci centimetri quadrati di terra. Non ho trepidato mai per la pioggia o il vento o la neve o il gelo e la ruggine e il ragno rosso che vuota la spiga. Non mi ha bruciato il sole a mietere nel campo né soffocato il polverone di pula alla battitura. Non ho portato mai un sacco e nemmeno un grammo di grano, chic-chi dorati e belli, alla macina per raccoglierne, nella mano bianca, il tepore bianco della farina. Non ho impastato mai farina nemmeno per fare una briciola. Non ho mai raccolto sterpi e viticchi e farne fiammata nel forno e poi aspettare e poi aprire la visione di un miracolo eterno e aspirarne dal più profondo dell'anima il misterioso, adorabile profumo.
E ne ho mangiato cosi tanto di pane, ne ho divorato cosi tanto, quasi come se piano piano avessi sbocconcellato una montagna, una quantità che è pressoché impossibile a immaginare.
Cosi l'acqua, cosi il vino, il vestito, il sapone, la penna, la carta, le strade, le case, il viaggiare... e le infinite cose che fanno la vita.
E anche l'aria, il cielo, il mare, il sole, gli animali, il verde, i fiori, le stelle a trapuntare la notte, lo splendore della luna, l'appassionata violenza del vento, lo scrosciare della pioggia... Forse tutto o in grandissima parte si è concluso in me, spaventoso abisso dove tutto si perde nel vuoto di un inutile, di una presunzione, nell'errore di un diritto cosi tanto assimilato fino alla normalità di una giustificazione di qualsiasi eccessività assolutistica.
Allora non è peccato a livelli moralistici, ma sacrilegio cioè idolatria.
E' qui che sta la maledizione che pesa, e la schiaccerà sempre di più, sull'umanità. E sopra di me e la storia della mia vita. Ho profonda e chiarissima nella mia anima, nell'interiorità della mia coscienza ma si manifesta ormai anche all'esterno per una sorta di stranissimo pudore che non riesce a coprire le proprie vergogne, la presenza di questo peccato. Ogni e qualsiasi povertà di cui fin ad ora mi sono bellamente sciacquata la bocca e perfino ogni e qualsiasi ricerca della cosiddetta incarnazione (ma è bestemmia dissacrante usare la santità di questa parola) attraverso la vita operaia, la scelta dei poveri e fregnacce di questo genere, non significano altro che ridicoli e penosi tentativi per una ricerca di una maggiore misura di avvicinamento ad una realtà di giustizia, cioè di elementare onestà personale.
E sentirsi sconfitti, cioè deficitari, in condizioni di fallimento nell'elementare conteggio dell'entrate e dell'uscite, del prendere e del dare, è situazione assai poco rimediabile con un semplice chiedere perdono: anche se fosse fatto percorrendo in ginocchio tutta la terra e implorandolo davanti ad ogni uomo e ad ogni donna.


Sirio


in Lotta come Amore: LcA gennaio 1978, Gennaio 1978

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