Comunicare l'esperienza di un convegno come quello di Assisi - fatto di dibattiti, discussioni e scambi a getto continuo - non è veramente possibile, perché non è possibile ricreare a freddo quel particolare clima di ricerca e di disponibilità interiore che caratterizzava quelle giornate.
Qualcuno può pensare che questa fondamentale incomunicabilità stia ad indicare che in fondo il Convegno - questo, come tanti altri - non è servito, non servirà a niente: è stato semplicemente quello che si dice una «belIa esperienza», una specie di ubriacatura di parole dalla quale occorre finalmente svegliarsi.
La realtà vera della vita e della storia non sta certo di casa nei convegni, neppure in quelli della Pro Civitate Christiana di Assisi. Quante volte ci siamo detti qualcosa di simile, ascoltando i fedeli accaldati e distratti negli abiti della festa, accostandoci a ricevere l'Eucarestia con altri estranei dalle mani di un vecchio prete: la vita vera, la storia umana è fuori!
Ebbene, proprio questo è stato il succo del Convegno di Assisi: la vita vera - Cristo, nostra vita - non abita nelle nostre chiese più di quanto non abiti in qualunque realtà umana emergente, e particolarmente nel mondo degli umili, degli emarginati, degli esclusi, cioè nel mondo di coloro che portano il peso del cambiamento che tutti ci coinvolge. Costoro oggi sono, per noi, Vangelo.
Già sapevamo che nel più piccolo dei nostri fratelli dovevamo riconoscere il Signore, ma credevamo di doverlo avvicinare come il ricco che dona del suo - cioè del Vangelo a noi Chiesa affidato. Oggi stiamo invece lentamente comprendendo che dagli umili, dagli emarginati, dagli esclusi, persino per certi aspetti dai bambini, siamo noi a dover imparare, insieme al nuovo volto dell'uomo anche e soprattutto il nuovo volto di Dio incarnato nell'uomo. E questo, non una volta per tutte, ma di nuovo in ogni epoca storica, con tutte le lacerazioni e le sofferenze che la storia richiede.
E' stato detto ad Assisi che stiamo oggi attraversando - e lo sperimentiamo nelle nostre coscienze - un profondo movimento tellurico, al termine del quale tutte le componenti del Cristianesimo tradizionale, senza scomparire, si troveranno profondamente dislocate. Tale è infatti il passaggio dell'ottica ecc1esiocentrica - secondo la quale Dio ama il mondo mediante la Chiesa - all'ottica cosmocentrica, - secondo la quale il mondo è l'oggetto diretto dell'amore di Dio e la Chiesa non è altro che la comunità di coloro che riconoscono tale amore.
Ma che cosa significa questo, per la nostra vita di tutti i giorni? Schematizzando e senza alcuna pretesa di completezza, mettere il mondo al centro della nostra vita cristiana, significa in primo luogo sottolineare fortemente il valore evangelico di ogni realtà profana, abbandonare definitivamente la pretesa che ci siano realtà «più cristiane» di altre (come per es., la nostra civiltà occidentale o un certo assetto sociale legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione), prestare attenzione senza pregiudizi moralistici ai movimenti della storia presente e ai gruppi umani che li portano avanti - categorie, ceti o classi sociali che siano. Nei rapporti interpersonali, ciò significa anche tra l'altro rifiutarsi di collaborare alla cosiddetta «promozione sociale» di questa o quella persona - cioè alla sua integrazione nel sistema, - per collaborare invece a far emergere i valori di cui essa sia portatrice e che il sistema rifiuta.
In secondo luogo, mettere il mondo al centro significa sottolineare fortemente il valore ecclesiologico della realtà profana, cioè la profonda relatività delle chiese esistenti e delle loro divisioni e insieme la necessità di una Chiesa nuova, costituita da tutti coloro che realizzeranno nella prassi la volontà del Signore, magari incapaci di invocarLo come tale e comunque senza contentarsi di semplici invocazioni.
Il convegno di Assisi, senza pretendere di trasformare il mondo o la Chiesa con le parole, è stato un momento di incontro tra credenti e non credenti che in questa trasformazione sono già profondamente impegnati. Ciascuno sentiva dunque di dover rispondere delle sue convinzioni e delle sue parole non tanto al Convegno e ai convegnisti, quanto piuttosto agli uomini che lo attendevano fuori: di qui un'estrema libertà e laicità del dibattito. Ciascuno nel contempo sapeva di potersi esprimere liberamente, senza dover a priori evitare contrapposizioni e conflitti: di qui un'atmosfera di grande fiducia e cordialità, pur nella vivacità di certi interventi e nella distanza di certe posizioni.
Veniva pensato, in certi momenti, quale potrebbe essere o diventare la Chiesa, se il ministero sacerdotale si limitasse ad assicurare a tutti, senza preclusioni e in ogni occasione, la possibilità di un simile confronto fraterno se, come alla Cittadella, il ministero si definisse in funzione di questo moderno «servizio della parola», cioè delle parole di tutti.
Franco
in Lotta come Amore: LcA ottobre 1976, Ottobre 1976
Luigi Sonnenfeld
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