Dialogo nella Chiesa

Il convegno del preti operai a Serramazzoni con l'intervento di mons. Pagani, ha rappresentato un momento in cui il dialogo all'interno della Chiesa è stato messo alla prova. Si sono avuti risentimenti in diverse diocesi ma da quel che ci è dato di sapere ha vinto ancora una volta l'irrigidirsi delle gerarchie e dei responsabili pastorali di fronte a qualsiasi offerta di esperienze appena fuori dalle righe di una piatta uniformità alle direttive episcopali.
E' vero che i preti operai hanno risposto negativamente alla proposta di un «rapporto organico» avanzato da mons. Pagani, ma per sottolineare l'importanza di un dialogo concreto, alla base, nelle singole diocesi, secondo condizioni così diverse da non poter esser ricondotte ad unità se non attraverso operazioni di livellamento semplicemente inaccettabili.
Quando si assiste a prese di posizione di vescovi così diverse fino ad essere semplicemente opposte per quanto riguarda la sopravvivenza dei preti operai nelle loro diocesi, quando in una diocesi il prete che vuoi lavorare è incoraggiato dal proprio vescovo o nella diocesi confinante lo stesso prete rischierebbe la sospensione solo manifestando l'intenzione di entrare in fabbrica, quale rapporto organico è possibile stabilire e su quali basi?
Quando nelle diocesi i vescovi cercano di dividerci e di metterci gli uni contro gli altri (là dove i vescovi parlano con i preti operai) proponendo rapporti con i preti più vicini all'istituzione (per es. con quelli che lavorano) e cercando di affibbiare etichette di «buoni» e «cattivi», quale fiducia possono ispirare questi tentativi della gerarchia?
Nella nostra diocesi, per esempio, sta avvenendo questo, sembra difficile se non impossibile qualsiasi dialogo che sia realmente impostato su problemi veri accogliendo le esperienze diverse che provengono da una diecina di preti al lavoro.
Per fare un piccolo esempio; nell'ambito dell'inchiesta socio-religiosa voluta dal nostro vescovo e diretta da responsabili curiali, la campionatura dei preti diocesani ha visto l'assenza di un rappresentante dei preti al lavoro. Dimenticanza oppure chiara indicazione di una volontà di escludere dal contesto diocesano l'esperienza dei preti al lavoro relegandola (ed è perenne furbizia episcopale e clericale) nel ruolo delle «voglie» personali come il giocare a scacchi, l'andare a caccia o il dipinger quadri?
Anche se può sembrare assurdo, continua a perseguitarci l'accusa di assolutizzare l'esperienza del lavoro nella vita del prete, ma il considerare il lavoro come un qualcosa di accessorio che può fare chi ha poco lavoro pastorale o chi sfugge a compiti pastorali più pesanti è veramente uno schiaffo morale, è la dimostrazione della volontà di non capire. E questo pensano e ci dicono i nostri vescovi e continuano furbescamente «a non capire».
Non saranno queste furbizie a piegarci la schiena ma ci angoscia il fatto che andranno a pensare ancora di più sulla coscienza operaia già cosi tanto disorientata, sul popolo che lavora che sarà ancora come sempre l'oggetto di una catechizzazione insipida e alienante.
Possiamo e dobbiamo vivere la nostra solitudine nella Chiesa, ma ciò che rischia di schiacciare la nostra speranza è il rifiuto della Chiesa nel suoi rappresentanti ad ogni dialogo autentico con il mondo operaio.
Se solo si accettasse di discutere questo problema nella Chiesa, accetteremmo allora di scomparire.


La Redazione


in Lotta come Amore: LcA febbraio 1976, Febbraio 1976

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