Me n'ero andato in quel di Milano, a parlare, un paio di sere prima di Pentecoste, in una riunione di operai e di studenti. A parlare della mia storia di prete operaio. Che, anche se è prossima a concludersi nella pensione - in questo lunare mare della tranquillità dove si spegne tutto e ogni cosa muore per ogni operaio - ogni tanto questa storia mi si accende di nuovo nell'anima, a fiamma viva, come se fosse fuoco che inizia allora a fiammeggiare.
E ogni volta che ne parlo è come se la reinventassi tutta quella storia, venuta su a poco a poco, provocata dalla necessità terribilmente sofferta di una fedeltà a Dio e ai poveri e più precisamente ancora al popolo, scoperto nella realtà più viva e costruente che è la classe operaia.
E' come se lo reinventassi di nuovo, ma non per un lavorare di fantasia, semplicemente perché nelle sue motivazioni vi è della inesauribilità, della sovrabbondanza interiore, della quale il parlarne è sempre come accennare qualcosa. Nella profondità di me stesso tutto mi si allarga nelle misure di Dio, vi è qualcosa di palpitato nel cuore di Gesù Cristo, come una vibrazione minima, una risonanza lontanissima, ma capace di ripetersi e rinnovarsi incessantemente.
Preparo sempre, sia pure pochi minuti prima, brevissimi appunti, ma poi non riesco nemmeno a darvi un'occhiata. Sarebbe come tentare di rivivere sogni meravigliosi, raccogliendoli da annotazioni, momenti d'intensità appassionante sfogliando i quaderni del diario.
Quando invece tutto è scritto nell' anima, in una passione violenta e che ha scosso e sconvolto tutta una vita. Allora non si tratta di ricordare e di raccontare, è rivivere la stessa passione, è vibrare di cima a fondo in una realtà di presenza, come se tutto fosse in quel momento.
Allora è un parlare calmo e sereno, ma improvvisamente agitato, quasi a gridare qualcosa d'indicibile. Non vi può essere una logica di discorso, ma soltanto una passionalità incontenibile, a frasi tronche, con affermazioni assurde, a commozioni profonde. Come nodi alla gola che urgono come a volersi sciogliere in singhiozzi, pesi enormi da sempre a soffocare il cuore, a comprimere l'anima in impedimenti spietati ad un potersi lasciare andare al di là di ogni misura.
Tanto più che l'episodica da raccontare è così insignificante, scolorita, come del resto è la vita dei poveri.
Cosa c'è d'interessante nella vita di un prete che va a sparire dentro i cancelli di una fabbrica? Perché là dentro tutto, assolutamente tutto è normale. E' normale anche l'incidente sul lavoro, il rimanere mutilati o uccisi, difatti tutto continua sempre come se niente fosse successo.
Allora il racconto è di cose insignificanti, da non poter fare cronaca o romanzo e quasi, per raccontare qualcosa, devo farmi coraggio come a vincere una specie di pudore.
Tutto invece da raccontare - e il racconto di tutto quello che entra nelle misure della realtà di Dio è infinito e inesauribile - sono i motivi di Fede, le ragioni dell'Amore. Questo tentativo di fare della propria vita un segno di Dio, l'ombra della presenza di Gesù Cristo - dove e specialmente la sua presenza è ancora di crocifisso e non di risorto e la sua ombra quindi non può non essere che di crocifissione.
E' allora che rimbalzano nell'anima e riflettono a fondo le ragioni d'Amore che non possono ragionare, razionalizzarsi e nemmeno teologizzarsi, ma diventano impazzimento vero e proprio. Ed è assurdo quest'impazzimento volerlo «pastoralizzare», ricondurre e infrenarlo in schemi esatti, in stampi preconcetti. Non c'è per la pazzia - compresa anche quella che viene dallo Spirito - che la libertà assoluta o la camicia di forza.
Da sempre mi sono sentito stretto e oppresso dalle limitazioni e compressioni di un'autorità creduta e accettata come se venisse da Dio.
E più che spento la pazzia, mi ha svanito dentro il coraggio di questa pazzia e cioè della Fede pura, verginale, quella che porta Dio e l'accetta con gioia, a imperversare nella propria vita, sconvolgendola fin dalla radice in una fiducia, in una certezza che soltanto così è vita, è essere vivi e cioè creazione di Dio, inventività dello Spirito.
E mi è venuta la voglia incontenibile - strana e assurda quanto si vuole: ma cosa me n'interessa in fondo di come mi giudichi tu o mi giudicano gli altri? - la voglia di vivere la Pentecoste, il giorno d'incontro e di violenza a fuoco dello Spirito Santo e l'umanità, a Roma.
Ho viaggiato in treno tutta lo. notte da Milano a Roma.
Sono arrivato alle sei del mattino in un irradiamento di luce trasparente, dolcissima come da inizio della creazione del mondo. Roma è meravigliosa quando la sua antichità e solennità di vecchiaia raggrinzita di rovine romane e di resti di chiese e di tentativi di grandiosità, è avvolta e immersa nell'azzurro di un cielo che trasparisce l'infinito, nella chiarità di una luce che immerge in una novità assoluta tutte le cose.
Alle otto ero in S. Pietro, insignificante risucchio di una fiumana a riversarsi nella basilica. Vi stavano affluendo folle di pentecostali, quel movimento carismatico in ricerca di novità di vita nello Spirito Santo.
Mi sono ritrovato stretto da una folla enorme, nella assoluta impossibilità di muovermi. E così per oltre quattro ore.
Sapevo di essere lì per una voglia terribile di un incontro, o scontro che fosse, con lo Spirito Santo. Ma in fondo all'anima sentivo che era per una ricerca, per un'attesa di sopraffazione. Forse avevo un gran bisogno di sparire, come di perdermi, di essere risucchiato e travolto, per una liberazione profonda, una novità assoluta. Da giorni mi stavano martellando dentro quelle parole di Gesù al vecchio Nicodemo: «chi non nasce dall'acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio».
E dall'acqua ormai mi sentivo come affogato, ma la violenza dello Spirito ancora non mi ha percosso e sconvolto come sarebbe dovuto succedere e come bisogna assolutamente che avvenga.
Non so perché sono venuto in S. Pietro, ma sentivo che dovevo venir lì, forse per una Fede di continuità di apostoli e di cenacolo, cioè di luogo prescelto, come dove è fissato e stabilito che deve accendersi il fuoco.
E mi sono lasciato andare fra tutta quella folla come un filo d'erba in un campo. Non mi dava noia quel gruppo lì accanto petulante e sciocco di suore, quel gruppetto di spagnole devote fino alla nausea, quella folla di tedeschi che si davano arie di perfezionismo esibendosi in corali assai presuntuose e nemmeno, dalla parte opposta, lo. moltitudine dei carismatici ondeggiante d'alleluia, come folate di venticello di maestrale a muovere tutte quelle braccia alzate, mani aperte, imploranti la venuta dello Spirito.
Mi sentivo solo di una solitudine nuda e semplice, quella di essere popolo, il povero popolo, anonimo e sterminato, accalcato, costretto dentro mura fasciate di marmo, pilastri enormi e preziosi, mosaici e statue a guardare dall'alto, sotto un cielo a cupola enorme, stupenda - ma tutto come a imprigionare il popolo, a opprimerlo esaltandolo, stupefacendolo per conquistarselo.
Ero contento di essere questo popolo anche se non riuscivo a dire una parola, a cantare un'alleluia, ma mi sentivo il cuore aperto e dentro quella prigione dorata, inganno consacrato e sacramentalizzato di Fede che dovrebbe essere cristianesimo, mi stavo profondamente incontrando con lo Spirito.
Lo sentivo quasi fisicamente scendere e accendere nella anima il suo fuoco.
Avvertivo chiaramente i suoi segni che sono, almeno per me, la pace e violenza di Amore, adorazione a perdita totale nell'infinito di Dio e urgenza di incarnazione a sacrificio assoluto - in qualsiasi modo - nella concretezza dell'uomo e dell'umanità, fiducia e speranza al di là di tutta la storia e disperazione angosciosa per tutta una realtà ferocemente disumana... ma, specialmente mi si dilatava nella anima, riflettendosi anche fisicamente, il meraviglioso segno dello Spirito che è la libertà. La liberazione è opera di Dio nella potenza del suo Spirito: a condizione di abbandonarsi alla folata di vento - raffica violenta o dolcissima brezza che sia - nella gioia di non sapere "di dove viene e dove va". Nella sicurezza della Fede che lo spirito s'impossessa per una liberazione assoluta, porta via per realizzare in modo perfetto, sradica per piantagione nuova, annienta per una creazione, un mondo diverso.
E' questa libertà da ritrovarsi intatta e purissima, la novità unicamente capace di stupire il mondo. Me la stavo accogliendo sotto la volta dorata, inondata di luci e splendori di S. Pietro, fra tutta quella folla di popolo, ma era volta di cielo, era popolo che mi perdeva nel mare immenso dell'umanità, erano pianure e terre e città e innumerevoli braccia alzate e mani distese da ogni zolla di terra a implorare libertà, libertà, libertà...
La venuta del papa in sedia gestatoria: quell'uomo, povero vecchio, lampeggiato dai flash, ad affaticarsi a gesti di saluto e di benedizione, non mi ha dato fastidio né suscitato interesse. Ho avvertito - anche questa è liberazione - il mestiere del fare il papa. E non mi è stato possibile non guardarlo come uno spettacolo, con gli occhi della platea sul palcoscenico. Mi ha riempito l'anima di una pena infinita e mi sono ritrovato lontano, totalmente fuori dallo spettacolo desolatamente solo, separato anche dal popolo, Senza polemica o respinta. ma non sono potuto andare più in là di un segno di croce come accoglienza di una Chiesa nel suo compleanno di fondazione per opera dello Spirito Santo.
Sulla terra delle catacombe di S. Callisto, rigogliosa e solenne di verde nuovo e antico, come apparizione di primavera e di vita dal buio delle tombe, là sotto, dei martiri della Fede e del cristianesimo nascente, sono andato a vivere la Pentecoste con le migliaia e migliaia di carismatici.
Sicuramente anime semplici, ingenuamente spirituali fino a sentimentalità limpide di fanciulli in invocazioni colorate di estasi, in canti corali ondeggianti e mossi come un campo di grano dove passa il vento caldo d'estate. E mi sgomentava la grossa furbizia dei personaggi, anche qui a dirigere e comandare lo spettacolo, senza dubbio non abbandonato all'imprevedibilità dello Spirito. Un po' meno popolo questo, anche se enormemente variopinto ed ecumenico, e ce lo indicavano la dolcezza delle innumerevoli mani levate in alto quasi a voler prendere i lembi di quel cielo azzurro adorabile sfrecciato da folate di rondini a gridio allegro, inebriato, loro veramente libere nella radiosità di quel pomeriggio ormai rappacificato nella coloritura del calar del sole.
Ce ne siamo tornati io e il mio amico, carissimo fratello, a piedi per l'Appia antica e forse avevamo la pena e così era il nostro parlare come identico era il declinare del giorno, dei due discepoli di Emmaus.
Non so se con noi si è unito, strada facendo, Gesù. ma specialmente non so se abbiamo avuto il dono di riconoscerlo. Ma forse sì, nelle profondità dell'anima nostra e nella speranza della Fede.
don Sirio
in Lotta come Amore: LcA maggio 1975, Maggio 1975
Luigi Sonnenfeld
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